Recensione dello spettacolo Ogni volta che guardi il mare in scena al Teatro Lo Spazio dall'11 al 16 ottobre 2016
È il ritratto di una donna e di una terra divisa a metà. Di una madre costretta a scegliere tra due vite, la sua e quella di sua figlia, e di un paese, Petilia Policastro, nell’entroterra calabrese, consumato dall’omertà e dal desiderio di libertà, dai ricordi d’infanzia e dal sogno di un futuro che non c’è.
Ogni volta che guardi il mare è il monologo dei colori, della gestualità e dell’inconfondibile accento del sud portati in scena, al Teatro Lo Spazio di Roma, dall’intensa e brava Federica Carruba Toscano. In programma fino al 16 ottobre, l’opera prima della giornalista Mirella Taranto, diretta da Paolo Triestino, torna a convincere e a commuovere il pubblico romano.
Come Denise torna alla sua terra, perché a volte “la nostalgia è più forte del dolore”, perché a Milano l’odore dell’origano non è lo stesso, perché un mare così blu, come quello che bagna le coste della Calabria, non puoi trovarlo altrove. E proprio quel blu, che non è smeraldo, che non è celeste e neppure turchese e che “non conosce mezze misure” fa da scenografia alla narrazione, ora in prima persona, ora in terza, ora in italiano, ora in dialetto, di Saruzza, nome d’arte per raccontare sul palcoscenico la vita reale di Denise Cosco, figlia del noto boss Carlo Cosco, responsabile, insieme al suo ex fidanzato e altri affiliati della ‘Ndrangheta, del brutale assassinio di sua madre, Lea Garofalo.
La storia, quella di Lea e sua figlia, è, infatti, presa in prestito dalle pagine di giornale e dalle carte processuali che Mirella Taranto, calabrese anch’essa, è riuscita a rielaborare e a trasformare in opera teatrale. Arsa viva, all’età di soli 35 anni, per aver avuto il coraggio di dire no al sistema, al silenzio e a un destino già scritto, Lea rivive nel ricordo e nelle parole di sua figlia, nel profumo dell’origano e del finocchio selvatico, nell’odore di un mare che non puoi guardare se ti affacci alla finestra delle convenzioni e delle costrizioni di una società violenta, criminale e bigotta, ma puoi vedere, sentire e toccare se ti lasci guidare dall’amore per la libertà. L’unico che può farti andare lontano, lontano dalla tua stessa terra e dalle tue stesse origini “quando restare significa tradire se stessi”.
Il profumo dei ricordi e di una nostalgia dolce e amara al tempo stesso segna il passare dei minuti, quelli sufficienti alla cottura della torta alle arance infornata a inizio spettacolo e quelli, a volte troppo veloci, altre volte troppo lenti, che hanno segnato una vita fatta di trasferimenti e privazioni, solitudine e illusioni, menzogne e speranze e che Sara, nella sua vecchia casa in Calabria, rivive per fare pace con la verità e con il passato.
Il rumore del silenzio di un paese che non vuol sentire e di anni di esilio si alterna a “quell’esplosione improvvisa che uccideva la paura”, a quella risata di sua madre che ancora risuona tra le pareti della vecchia cucina, mentre Sara prepara la torta, mentre un vecchio disco suona e mentre affiorano ricordi lieti come quelli su zia Carmela che arrossiva ogni volta che in tv c’era Lascia o Raddoppia e in primo piano l’inquadratura di Mike Bongiorno.
Un’interpretazione intensa e verace, nonostante la breve carriera dell’attrice palermitana, che convince senza remore e dal primo minuto lo spettatore, pronto a lasciarsi guidare dagli occhi dolci e orgogliosi, dalle forme rassicuranti e fiere, dalle movenze morbide e decise di quel Sud spaccato a metà. Fino allo svelamento di ogni dubbio. L’odore della torta alle arance, preparata e cotta in tempo reale, inebria la sala, una voce fuori campo, quella di Ida Scofano legge il testamento di Lea, mentre una platea visibilmente commossa guarda il mare, anche se non c’è.
Concetta Prencipe
15/10/2016