Recensione dello spettacolo Amleto in scena al Teatro Quirino dal 18 al 30 ottobre 2016
E’ un Amleto diverso dal solito quello che va in scena fino al 30 ottobre al Quirino di Roma: ad adattarlo e a dirigerlo, nonché a interpretarlo, è un attore che il pubblico vede poco esibirsi sopra un palcoscenico ma piuttosto al di là di uno schermo, ovvero Daniele Pecci. Più noto al pubblico televisivo, l’attore si è volutamente messo alla prova con un testo da lui molto amato oltre che molto difficile: la popolarità di Amleto è tale da non dover nemmeno spiegare perché questo dramma di Shakespeare sia ad oggi considerato tra i più trasposti non solo a teatro ma anche al cinema, basti pensare all’ultima versione teatrale trasmessa sul grande schermo e interpretata da un ottimo Benedict Cumberbatch.
Non sarà forse come quello di Cumberbatch l’Amleto di Pecci, ma non è nemmeno da disdegnare. Per questa sua versione dell’opera, Pecci ha preferito allontanarsi dalle originarie ambientazioni medievali e trapiantare l’azione negli anni 30 del Novecento: l’eleganza e la raffinatezza degli abiti, dei gesti e del comportamento ben si sposano con la necessità dei personaggi di dover apparire più che essere. Nel dramma dalle tematiche estremamente attuali, infatti, l’unico personaggio che sceglie di essere completamente se stesso e di combattere contro le menzogne dell’apparenza altrui, è proprio Amleto: tutti, infatti, appaiono ciò che non sono, a partire dallo zio re che pretende di essere afflitto per la morte del fratello fino a Rosencrantz e Guildenstern che pretendono di essere preoccupato per l’amico Amleto, tutti recitano la parte che l’altro si aspetta tranne Amleto, che si finge pazzo quando non lo è. Tra tutti l’unico personaggio che rimane fedele a se stesso è quello di Ofelia, incarnazione dell’innocenza e dell’ingenuità fatta persona, che impazzisce sul serio non accettando le crudeltà del mondo. Crudeltà a cui, invece, Amleto deve reagire affrontandole per sete di giustizia e di verità: è lui che porterà tutti a scoprire il terribile delitto perpetrato ai danni del re, una scoperta che coinvolgerà i personaggi in una spirale di vendetta da cui nessuno uscirà illeso, compreso lo stesso principe di Danimarca.
L’adattamento di Pecci si può definire con un solo aggettivo, coraggioso. E’ coraggioso perché ha deciso di rischiare cambiando qualche carta in tavola, a partire dall’ambientazione, per cui il pubblico si trova a vivere il dramma in un palazzo nobiliare degli anni 30, ma non solo. Pecci ha riadattato il testo aggiungendo qualche nota di colore tra i neri e i bianchi del dramma, tanto da riuscire a rubare al pubblico qualche risata qua e là, e ha anche alleggerito la tensione tra un momento drammatico e l’altro con molta naturalezza.
Tutto questo Pecci l’ha fatto senza nulla togliere all’Amleto che tutti conosciamo, senza discostarsi dal testo originale e dalle sue atmosfere ma piuttosto rivisitandole con un occhio più attento all’attualità dei temi affrontati. Di forte impatto la scena del dialogo con Ofelia e quella del violento confronto con la madre Gertrude: entrambe le scene, però, sono state magistralmente interpretate da Maria Chiara DI Mitri, che è rimasta molto fedele al personaggio di Ofelia restituendolo al pubblico così come Shakespeare l’ha reso su carta, e Maddalena Crippa, che ha vestito i panni di Gertrude in modo sublime e brillante.
La Crippa, infatti, si è calata molto bene nelle vesti della moglie traditrice, la cui corruzione traspare attraverso movenze sensuali e ammiccamenti, e tormentata da un pesante senso di colpa, e della madre chioccia, preoccupata per il malessere del figlio. Notevole anche il Polonio di Rosario Coppolino, il personaggio logorroico che ha fatto sorridere di più il pubblico perché buffo e impiccione.
Eppure nonostante Pecci avesse dalla sua un dramma epocale e una compagnia di attori eccellente, nel suo Amleto ci è parso che mancasse quel ‘certo non so che’ che conferisse alla messinscena più spirito, più verve, più ‘pathos’, come direbbero i greci. Gli attori, ciascuno di loro, si sono saputi confrontare bene con i rispettivi personaggi, è l’averli messi insieme che non ha dato, secondo il nostro umile parere, il risultato atteso, tanto che alla fine dello spettacolo, siamo stati invasi da una sensazione di vacuità e ci è parso di aver assistito semplicemente all’ennesima trasposizione di Amleto e ciò è un peccato dato che lo sforzo e lo studio profondo del testo da parte di Pecci sono ben evidenti, ma allo spettatore sembra non passare il fuoco che alimenta l’anima di Amleto, ma solo i suoi dubbi, le sue paure, le sue crisi verso un mondo che non lo comprende e che lui non comprende. Troppa psicologia a Shakespeare fa male.
Diana Della Mura
21/10/2016