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Teatro Brancaccino. La voce umana. Storia di una donna sull'orlo di una crisi di nervi

Recensione dello spettacolo La voce umana in scena al Teatro Brancaccino dal 27 al 30 ottobre 2016

La stagione 2016/2017 del Brancaccino apre con la Voce umana di Cocteau per la regia di Marco Carniti.
Un messa in scena molto particolare quella che ci viene proposta, dove l'"amanta dolorosa" portata sulle scene dal drammaturgo francese nel 1930 viene presa, tolta dal suo contesto storico/culturale e scaraventata nel XXI secolo.

Infatti il sipario si apre su un appartamento che più che uno spazio dove si vive sembra un vero e proprio campo di battaglia nel mezzo del quale si erge vittorioso un fallico totem di lavatrici sovrapposte, vero e proprio Moloch troneggiante sull'esistenza umana.
La protagonista è una psicoterapeuta sedotta e poi abbandonata da un politico alla ribalta che ha trovato una donna più giovane e avvenente di lei.
Cinque anni insieme andati in fumo in un attimo che di punto in bianco l'anno resa fragile e insicura, brancolante nell'oscurità di una vita ormai svuotata di ogni senso in continua lotta con l'ormai grigia routine di tutti i giorni.
Un non luogo in un non tempo dove si consuma la tragica commedia o se vogliamo la commedia tragica (dipende dai punti di vista) di una donna costretta, dalla persona che ancora ama, a cancellare ogni ricordo della loro vita insieme. Persona che ai limiti del parossismo le chiede di mettere in una valigia da lasciargli in portineria tutte le foto, gli oggetti, gli indumenti che lo riguardano rimasti nell'appartamento.
Se nei primissimi anni '30 del Novecento le interferenze telefoniche e le cadute della linea erano dovute ai tanti difetti e insufficienze del servizio telefonico di allora, nel 2016 a rendere questa lunga telefonata "impossibile" è il continuo interagire dei tanti modi di (non) comunicare a nostra disposizione: skype, whatsapp, facebook, messenger...e così via dicendo.
L'interpretazione di Carmen Giardina ci è piaciuta, ben calata nella parte è riuscita, senza esasperare in modo troppo grottesco il personaggio, a rendere le tante sfumature atte sia a farci ridere sia a farci riflettere, e questo è forse il punto centrale di tutto lo spettacolo, sull'ipocrisia nei nostri rapporti sentimentali, ora più di allora.
Dopo la persistente banalità degli ultimi mesi ci ha colpito l'uso mirato dell'illuminazione che, con i suoi gialli e verdi rasenti l'acidità e i rossi e blu carichi che spesso e volentieri sovrapponendosi fondevano in vere e proprie macchie di viola, ha sempre teso a sottolineare gli stati emotivi della protagonista che solo a volte riesce a rompere la continuità del monologo rivolgendosi al cane di Lui che volendo o no ne è la traslazione in carne, pelo ed ossa.
Concludendo, ci si poteva aspettare lo straziante finale originario segnato indelebilmente dal rintoccare dei "ti amo" che come campane a morte continuano a risuonare nelle orecchie degli spettatori anche dopo esser usciti dalla sala...e invece no, Carniti va oltre e senza neanche troppo esagerare cita volutamente Sara Kane prendendo a prestito il finale del suo Psicosi delle 4 e 48. Un sovrapporsi e unificarsi di morti interiori che si equivalgono.

 

Fabio Montemurro
30/10/2016

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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