Recensione dello spettacolo Il Teatro degli oggetti in scena al Teatro Vascello il 31 ottobre 2016
Se una civiltà aliena un giorno analizzasse molti degli oggetti che la razza umana ha prodotto, soprattutto dal XX secolo in avanti, penserebbe di certo che gli umani abbiano molta inventiva e un grande senso della poesia (e) dell’inutile. Tuttavia potrebbe pensare anche che gli umani siano una razza di mentecatti, e mettere radicalmente in dubbio il loro senso estetico. Questo il pensiero che resta in mente dopo aver visto il Teatro degli oggetti di Fulvio Abbate.
Abbate è molto bravo a costruire un lungo monologo su qualche decina di oggetti molto particolari che appartengono alla sua collezione, trovati e cercati per mercatini e per e-bay come solo un navigato collezionista sa fare. In modo leggero e divertente, quasi gli spettatori fossero dei commensali invitati a cena a casa sua, Abbate mostra uno dopo l’altro gli oggetti, visibili al pubblico (alcuni sono molto piccoli) grazie alla ripresa in diretta di una telecamera (il che, insieme alla base dove volta per volta sono appoggiati gli oggetti, ricorda un’asta o una lontana versione poetica e surreale di certe trasmissioni di TeleMarket).
Il suo tono è amichevole, bonario, lungi dalle raffinatezze tecniche degli attori di razza (cosa che d’altra parte Abbate non è, essendo scrittore e giornalista). Lo spirito non è quello dell’elegia malinconica che ci pervade quando maneggiamo vecchie chincaglierie di famiglia, ma è più vicino a un’amarcord scanzonato, e divertito da quante cose bizzarre e di cattivo gusto siano state prodotte. Eppure rimane affettuoso.
A scongiurare ogni rischio di noia contribuisce la scaltra sottolineatura musicale di Alessandro Greggia, e qualche intervento canoro dello chanteur Rudy Marra, aspro e disincantato poeta, a irrobustire l’atmosfera creata dall’autore.
Nel Teatro degli oggetti sembra che l’attore principale non sia Abbate – che lo ha ideato e lo conduce – ma gli oggetti stessi. Gli oggetti spesso sono muti, lo sappiamo, e Abbate gli dà voce, ne narra la storia, ce ne racconta l’unicità.
Sono oggetti d’affezione? Sì e no. Sono oggetti non direttamente legati all’infanzia o alla famiglia di Abbate (eccetto un dischetto per grammofono, unico oggetto rimasto della defunta zia Gioconda, intorno a cui gira idealmente tutta l’operazione di Abbate), ma diventano d’affezione nel momento in cui compongono una sorta di mappatura sentimentale della storia di Abbate, e attraverso quella della storia del secondo ‘900.
Quasi sempre, infatti, gli oggetti scelti da Abbate hanno un nesso con un’epoca, un ambiente, un personaggio che direttamente o indirettamente sono legati alla sua esistenza. Come alcuni memorabilia risalenti agli anni della sua infanzia: ad esempio il gioco da tavolo ispirato a Groucho Marx “Groucho TV Quiz” del 1956 (anno anche della nascita di Abbate) che con le sue domande su paesaggi e la bibbia riassume il carattere dell’America anni ‘50; oppure il temperamatite a forma di presidente Kennedy, presentato, con un coup de théâtre particolarmente efficace, insieme al pupazzetto raffigurante il suo successore Lyndon, e a un modello di Bell & Howell Zoomatic, la cinepresa utilizzata da Zapruder per filmare l’assassinio di Dallas.
Molti gli oggetti legati al PCI, da alcune buffe bandiere di sezioni “balneari” del partito, alle medaglie filo-vietnamite vendute nelle feste dell’Unità degli anni ‘70. C’è persino una bizzarra bandierina delle Brigate Rosse, del tipo di quelle che gli stati e le nazioni utilizzano durante i summit internazionali. Da qui al manifesto sulla sparizione di Emanuela Orlandi il passo è breve, e passo dopo passo, oggetto dopo oggetto – impossibile citarli tutti – lo spettatore ripercorre certi punti chiave degli ultimi decenni.
E ovviamente tanto kitsch e trash, dal libro del 1987 “Libidine” di Roberto d’Agostino (ma la cui edizione venne pubblicata dal curatore delle opere di Levi Strauss, Paolo Caruso), al pesce che canta Don’t worry be happy, a una tremenda cannuccia da cocaina incastonata in un cobra, regalata a Abbate da – nientepopodimenoche – Mario Schifano. C’è persino l’orrido corvo Rockfeller.
Ma anche tanta poesia, come nel caso di una lettera trovata casualmente dopo una tempesta, in cui Vittorio Spartaco, misconosciuto autore di “Novelle”, veniva lodato, incoraggiato e scoraggiato dal fratello a continuare la carriera di scrittore.
Il monologo finisce con un piccolo prodigio: lo scugnizzo che fuma, una delle sorprese nei fustini del detersivo Tide negli anni ‘60, sulle note di Et Maintenant di Gilbert Becaud. E ci dice che Abbate, pur senza impegnarsi troppo, sa creare la magia giusta sul palcoscenico, una magia a grana grossa, ma che comunque diverte, e a tratti meraviglia, gli spettatori.
Mario Finazzi
02/11/2016