Venerdì, 22 Novembre 2024
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Teatro dell'Orologio. Luna park, se incontri Dio ai bordi di una tangenziale domandagli: Do you want a cracker?

Recensione dello spettacolo Luna Park: Do you want a cracker? in scena al Teatro dell'Orologio dal 4 al 6 novembre 2016

In scena al Teatro dell’Orologio il terzo capitolo di una trilogia detta dell’Essere. Luna Park - do you want a cracker? è uno spettacolo originale, spontaneamente ironico, capace di generare riflessioni e domande già poste che vengono, però, riprese e ricordate con un sorriso a tratti un po’ amaro.

Dio è altro, è non dimostrabile, è l’eterno dogma. Lo si può trovare nello spazio o basta spingersi ai bordi di una tangenziale? é Dio che cerchiamo nelle nostre domande o forse una parte di noi stessi? Quando a porsi domande esistenziali è un personaggio disinserito in quelli che sono i codici del linguaggio e delle norme comuni, la sensazione è sempre quella duplice di stare ad ascoltare dei discorsi inconsistenti di una mente vacillante o di trovarsi di fronte al profeta folle che attraverso la follia è approdato a ben più concrete verità. Un profeta della street, di un secolo interrogativo e convulso, semplicemente un uomo.
Su di una scena vuota un microfono solitario. Tanto basta allo spettacolo. In scena Simone Perinelli si districa in un testo pieno, semplice, che richiede, però, attenzione, un testo che va seguito. Una scrittura che recitata non ha bisogno di orpelli o scenografie altre perché basta a se stessa, basta a reggere il palco tutto e la platea incuriosita da quel personaggio anti convenzionale, balbuziente, pieno di tic e gesti maniacali. “Sono manie, sono solo manie” ripete l’uomo, l’attore, il personaggio fuori contesto, non ordinario, disadattato, probabilmente disagiato. Un monologo finale carico, articolato sulla parola mano, sulle frasi e i pensieri a cui è connessa la parola mano, la mano come vero specchio dell’anima, la mano come elemento fondamentale per dire chi siamo…sei fuori mano, con le mani bucate, ti do una mano e ti prendi tutto il braccio e via discorrendo. Una lava che scorre il finale. Ma si può partire dal finale? Si può partire un po’ da ovunque nel raccontare Luna park, perché non segue un percorso rettilineo, è senza senso con un senso. Un filo logico è rintracciabile, lo si coglie, si coglie l’esigenza di cercare risposte in un vivere quotidiano e spasmodico e ce le restituisce lui, le domande, il protagonista, col suo vissuto marginale, dove le domande sono sempre di più delle risposte. Discorsi sconnessi che partono dalla descrizione della tangenziale est di Roma, e vedono coinvolti il cane Lola, gli alieni, lo spazio, Dio. Il Dio che una certa tradizione ha descritto in un paradiso astratto ce lo immaginiamo in un iperspazio o nei pressi della tangenziale di Roma, che può diventare l’iperspazio. Parole che ondeggiano, saltellano, incespicano, cadono, ballano come danzatori di una tribù suburbana, realtà quasi lisergiche vengono a pennellarsi, a tratti, nelle parole dell’attore che, da bravo antieroe moderno, si districa con una sequela di ragionamenti rapportandoli alla sua realtà, alla sua condizione, al suo ambiente.
Un contesto urbano prende forma sotto i nostri occhi grazie alle parole incasellate nei punti giusti, immaginiamo e sorridiamo quando sentiamo citate le strade di Roma coi suoi svincoli e le sue uscite, ci troviamo catapultati nel conosciuto, nella realtà che sappiamo non esente da difetti. Ci si sente piccoli e padroni di qualcosa nell’attimo spazio temporale in cui avviene questa messa in scena, consapevoli delle nostre domande, sicuri delle non risposte, conoscitori di luoghi visitati o anche solo sentiti, un San Lorenzo o San Giovanni, Tiburtina e quartiere Flaminio, li abbiamo tutti un po’ sentiti. E lo spazio? Quanto timore e senso di vastità può dare lo spazio. Le tangenziali astrali e le vie galattiche che hanno per lampioni le stelle misurano il nostro senso di vuoto spaesato.Una percezione che il protagonista prova a raggiungere, chissà se per darsi veramente delle risposte o per alienarsi meglio, per allontanarsi ancor di più da questo marasma terreno.
Mimica incisiva, diretta, un monologo immedesimato reso efficace anche grazie alle sequenze di luce che illuminano e lasciano al buio la scena generando una serie di scketch in tema col disorientamento dei discorsi.
Non si può fare a meno di notare l’influenza di Cervantes all’interno della sceneggiatura, se ne fa chiaro riferimento anche quando si citano tre mulini a vento posizionati sulla Luna. Che però non girano, perché, si sa, sulla Luna il vento non c’è. Dunque Cervantes, padre degli antieroi e dei personaggi bizzarri, sognanti e combattivi è servito a Perinelli che, oltre ad attore, è anche scrittore dello spettacolo, per elaborare un nuovo Don Chisciotte. La compagnia Leviedelfool, di cui fa parte l’attore, “lavora su drammaturgie originali ponendosi l'obiettivo di dar vita ad un Teatro contemporaneo in grado di collegare l'arcaico con il moderno: in grado di portare il mondo in sé dalla preistoria al presente anticipando l’avvenire”. Restiamo, quindi, in attesa di assistere a nuovi viaggi che ci ricordino come i discorsi sconnessi di un clochard contemporaneo, di un dissociato essere bazzicante le periferie o le stazione di questo mondo, possano, a volte, serbare le domande costanti della nostra fragilità e della nostra condizione. Restiamo in ascolto dunque.
“Il cielo lo scrive il poeta e le nuvole le lasciamo ai pazzi” e pazzi, un po’, lo siamo tutti.

 

Erika Cofone
07/11/2016

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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