Recensione dello spettacolo 28 battiti in scena al Teatro India dal 9 al 20 novembre 2016
Il nostro corpo comunica al mondo la nostra personalità, ci definisce e parla agli altri di noi. Il corpo è lo strumento che ognuno usa per definire e affermare se stesso nella società, e ciò è ancora più vero se con il proprio corpo si lavora.
Per gli sportivi il corpo è la ‘summa’ di tutto: lavorano su se stessi, dentro e fuori, per raggiungere traguardi che altri sognerebbero soltanto, per questo poi quando il corpo inizia a ribellarsi e a rifiutarsi di sottostare ancora alle tabelle di marcia, agli allenamenti, inizia anche a non funzionare più bene, perché qualcosa, dentro, si è rotto. Per il protagonista di questo spettacolo, scritto e diretto da Roberto Scarpetti e interpretato in modo eccezionale dal bravo Giuseppe Sartori, il corpo diventa un’ossessione: tanto più l’atleta è ossessionato dalla vittoria e dal poterla ottenere intervenendo sul proprio corpo, tanto più finisce col commettere degli sbagli da cui non riesce a tornare indietro. Lo sbaglio più grande che uno sportivo possa commettere per vincere una gara è quello di ricorrere al doping, inteso come ultima risorsa per percorrere quel chilometro in più che garatisce la vitttoria.
Il maratoneta di ‘28 battiti’, la cui vicenda è ispirata a quella di Alex Schwazer e alla sua positività che venne fuori a una settimana dalle Olimpiadi di Londra, però, sfrutta il doping come mezzo per scappare da una vita che gli stava diventando stretta, una vita che si svolgeva tutta in funzione dei suoi allenamenti massacranti e di orari improponibili, una vita dievntata non vita da cui desiderava fortemente fuggire per rinascere come un nuovo essere umano.
Il doping, quindi, rappresenta per lui l’unica chance per mollare tutto e diventare un’altra nuova persona: da una parte, il doping uccide tutto quello che ha costruito con tanto sudore durante la sua carriera sportiva, ma dall’altra è anche il simbolo della sua ribellione verso lo sport e verso tutto quello che non ha mai desiderato. E’ vero che la passione per lo sport è ancora presente e forte in lui, ma è anche vero che è molto più forte e determinante il desiderio di liberarsi dalle pressioni della società, dallo stress degli allenamenti e delle gare, da quella routine che ha finito con l’intrappolarlo in una vita non sua e che non rispecchia più il suo ideale e i suoi desideri.
Il doping diventa qui la metafora della libertà d’espressione del sè: libero così dalla gabbia in cui la vita d’atleta lo aveva rinchiuso, il protagonista può guardare finalmente al futuro in modo diverso e vivere lo sport non più da schiavo ma da fervente appassionato, riconquinstando la consapevolezza e il contatto con se stesso e con il proprio corpo.
Giuseppe Sartori ha dimostrato di saper mantenere sempre alta e focalizzata su di sè l’attenzione del pubblico: unico protagonista sul palco, eppure mai solo, poiché a supportare il suo racconto ci sono le immagini trasmesse sullo schermo alle sue spalle, Sartori trasmette in modo vivido e appassionato il lamento dell’atleta che vuole tornare alla normalità. La tensione dell’anima affaticata e afflitta dell’atleta viene trasmessa attraverso la contrizione del corpo, mezzo con cui anche i sentimenti e le emozioni più profonde prendono vita in modo così ardente e coinvolgente che il pubblico non può fare a meno di simpatizzare per l’anima tormentata del protagonista. Il regista ha dimostrato, ancora una volta, di sapere come riuscire a sviluppare una storia dalle tematiche profonde e attuali usando un linguaggio chiaro e moderno senza appesantire la prosa di inutile retorica.
Diana Della Mura
22/11/2016