È innegabile il fatto che il teatro sia l’arte del “qui e ora”, dell’attimo presente.
Lo spettacolo esiste appena si accendono i fari e si apre il sipario, e un attimo dopo la chiusura dello stesso, non esiste più. Come la vita reale, non può essere racchiuso, inscatolato in un oggetto concreto come un dipinto, un libro, un disco, un film o una scultura. Mentre gli attori recitano, ciascuna battuta, ogni singolo movimento del corpo, qualsiasi espressione o azione sono compiuti esattamente lì, in quel momento, e anche se l’attore conosce a menadito le battute che seguiranno, le vive in quel preciso istante, come se tutto accadesse per la prima e unica volta.
Il teatro è altresì l’arte della relazione. Alla prima lezione di Storia del Teatro all’università, il professore tentò di dare una definizione del teatro (cosa alquanto ardua per chiunque) arrivando poi a affermare che “teatro è tutto ciò che si dichiari tale”. Ma, cosa ancora più importante, “teatro è ciò che accade quando c’è almeno un attore che recita e almeno uno spettatore che guarda”. Ovvero, il teatro si fa almeno in due. La scrittura è un’attività solitaria, alla stregua della pittura, la scultura e la composizione musicale. Un musicista potrebbe anche non esibirsi mai di fronte al pubblico (vedi Mina degli ultimi decenni) ma comporre e suonare musica che gli ascoltatori possono fruire autonomamente in qualsiasi momento desiderino farlo.
Una compagnia teatrale può essere composta anche da un numero cospicuo di attori. In tal modo otteniamo già un gruppo, una piccola società densa di rapporti basati sulla verità di ciascuno. Lo spettacolo funziona quanto più è forte il rapporto tra i suoi membri. Ma anche nei casi di “one man show” (propri del teatro di narrazione, ad esempio) in cui un unico attore è anche scrittore e regista del proprio testo, l’arte trova la sua completezza nella messa in scena, ovvero nel momento in cui l’attore ha almeno uno spettatore innanzi a sé, con il quale condividere tutto il suo lavoro. Se in sala non ci fosse neppure una persona, lo spettacolo non verrebbe fatto, perché il teatro si nutre della relazione tra attore e pubblico, altrimenti non ha ragione d’essere.
Lo spettacolo è un’offerta, un regalo che l’attore fa allo spettatore. Anche se alcuni attori sono convinti di recitare per se stessi, e affermano di non dare troppa importanza alle reazioni del pubblico, non è mai così, non può essere così. Il teatro avviene, esiste, acquista senso e significato solo se c’è almeno uno spettatore seduto in platea. E gli attori sul palco avvertono le sensazioni del pubblico, sanno bene che se recitano male, se sono frettolosi, il pubblico comincerà ad agitarsi sulle poltrone, a tossire, a prendere il fazzoletto, eccetera. Perché c’è una relazione in quel momento in sala, anche se la maggior parte degli spettacoli avvengono con l’artificio della quarta parete, ovvero il fingere che il tutto avvenga dentro una stanza composta appunto di quattro pareti.
In teatro gli attori portano la propria verità, il proprio essere autentici. È paradossale il fatto che pur raccontando e recitando storie che non hanno nulla a che fare con la propria vita, ciascun attore debba essere il più sincero, il più vero possibile. Proprio l’arte della finzione scenica è in realtà una delle attività umane che più hanno a che fare con la verità, con l’autenticità. Quanti mestieri invece costringono l’essere umano a indossare un vestito che non gli appartiene, a fingere di essere altro da se stesso, intrappolato in dinamiche distorte e disfunzionali e in ruoli che non ha scelto. In teatro non funziona così. Più gli attori scoprono se stessi, più usano esattamente ciò che sono per recitare, altrettanto risulteranno eccellenti nel loro lavoro.
Il teatro quindi è l’arte dell’attimo presente. Il teatro è l’arte della relazione. Il teatro è un dono che l’attore fa al pubblico. Il teatro è l’arte della verità.
Per tutti questi motivi, e infiniti altri, fare teatro rende felici.
Cecilia Moreschi
6 dicembre 2020