Mercoledì, 26 Marzo 2025
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Enrico Calesso, fra rigore e poesia. Intervista al direttore Musicale Stabile del teatro Verdi di Trieste

Dal 21 al 30 marzo al teatro Verdi  va in scena uno degli spettacoli più attesi della stagione: ‘Der Fliegende Holländer’.

 

Il titolo di Wagner ritorna a Trieste, con la direzione di una delle più raffinate bacchette della sua generazione: Enrico Calesso, dal 2023 direttore musicale del Verdi.

Il Maestro trevigiano ha una formazione di grande spessore: laureato col massimo dei voti e lode a Ca’ Foscari,  in Filosofia Teoretica con una delle colonne del pensiero contemporaneo, il filosofo Emanuele Severino ; diplomato in pianoforte al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia con Anna Colonna Romano, allieva di Benedetti Michelangeli; formatosi a Vienna con Uroš Lajovic all’Università della Musica conseguendo il diploma con il massimo dei voti e la lode, nonché l’onorificenza del Würdigungspreis dell’Università di Vienna. Ma non basta: è stato Generalmusikdirektor del Mainfranken Theater di Würzburg in Germania, Chefdirigent dell’Orchestra Filarmonica di Würzburg e Direttore Ospite stabile presso il Landestheater di Linz in Austria.

Vastissima   la sua preparazione musicale, con un repertorio che spazia dal Barocco al contemporaneo, un particolare interesse per le produzione di area tedesca  ed una lettura delle partiture profonda, attenta, al tempo stesso personale e  rispettosissima delle motivazioni del compositore. Erede della lezione della migliore grande scuola italiana, con gesto raffinato e sicuro, riesce a sostenere con attenzione e misura i cantanti e valorizzare le potenzialità dell’organico orchestrale, facendo brillare le potenzialità dei singoli musicisti, come riesce a fare con l’orchestra triestina.

Abbiamo incontrato il direttore nei giorni precedenti alla prima del capolavoro wagneriano, che verrà proposto per la prima volta in Italia nella forma pensata dal compositore: in un solo atto.

Nonostante le giornate impegnative, ha accettato, con grande disponibilità  e gentilezza, di rispondere alle nostre domande.

 

Lei è nato a Treviso, territorio molto sensibile alla musica ed a quella lirica in modo particolare, grazie anche alla presenza di una realtà importante come il Teatro Comunale ‘Mario Del Monaco’. Come è nata la passione per la musica?

Già da bambino restai molto affascinato dalla musica lirica e da quella sinfonica, che frequentavo insieme ai miei genitori. Cominciai su mia insistente richiesta a prendere lezioni di pianoforte e da lì si sviluppo un costante e crescente interesse per la musica classica, in tutti i suoi generi e forme, che ho coltivato poi con gli studi ulteriori di organo, composizione e direzione.

I suoi familiari l’hanno appoggiata oppure erano spaventati da una scelta professionale così faticosa?

Non nascondo che i miei genitori, soprattutto mio padre, nutrissero dubbi su questa scelta – dubbi che peraltro io stesso posso capire e condividere. Nonostante la mia non fosse una famiglia di musicisti, c’era la consapevolezza di quanta disciplina e quanto sacrificio una scelta simile necessiti, a fronte della situazione di strutturale incertezza che essa comporta per quanto riguarda gli esiti professionali. Ma nonostante tutto ho sempre sentita la mia grande passione riconosciuta, accettata e ampiamente sostenuta, sia materialmente che moralmente. Di questo sono loro molto grato, così come al mio fratello maggiore – e naturalmente a mia moglie e ai miei figli, che supportano e sostengono con grande volontà e sacrificio la mia carriera.

 

Il suo curriculm di studi è molto ricco e spiega bene sia la sua grande capacità di lettura ed interpretazione delle pagine che dirige, sia il fatto che la direzione appaia come un punto d’arrivo di un percorso profondissimo: una laurea in Filosofia Teoretica con il massimo dei voti, ottenuta alla Ca’ Foscari di Venezia con il professore Emanuele Severino;un diploma di pianoforte al Conservatorio «Benedetto Marcello» di Venezia; il diploma con il massimo dei voti e la lode, nonché l’onorificenza del Würdigungspreis dell’Università di Vienna nella classe di Uroš Lajovic.

Ci racconta le motivazioni che l’hanno guidata verso un percorso così articolato?

Risponderei anzitutto con una citazione dal Faust di Goethe: “Due anime albergano nel mio petto”. Filosofia e musica appartengono per certi versi a regioni dello spirito completamente opposte. Mentre la prima si impone il compito (essenziale sin dagli albori del pensiero greco) di indagare la verità nel suo risplendere in modo incontrovertibile (salvo poi in secoli recenti prendere coscienza della contraddittorietà stessa tra questa incontrovertibilità e l’evidenza fenomenologica del divenire), la seconda è l’immagine più pura, astratta e immediata del divenire stesso del reale e della coscienza. Applicare il metodo filosofico all’indagine e allo studio del grande repertorio della musica colta occidentale non è né possibile né auspicabile, proprio perché essa esprime esattamente la coscienza della civiltà occidentale del costante mutamento degli essenti. E viceversa non è possibile fondare un pensiero di valore indiscusso sulla base di categorie come intuizione, fede, creatività, emozione. Si deve dunque operare una sintesi interpretativa, che corrisponda alla sintesi del reale di cui l’arte, e in modo primario la musica, è somma espressione e immagine fedele - la sintesi intendo di soggetto e oggetto, di forma e materia, di uomo e natura, di immanenza e trascendenza (così importante nell’estetica romantica). In questo senso è impensabile affidarsi ad un movimento irrazionale e disorganizzato, così come intendere di costringere l’inevitabilità del divenire in regole, rigide strutture e inevitabili costanti. Mi viene in mente a questo proposito l’ideale della tragedia attica, così come esposto da Nietzsche ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica, è cioè l’unione perfetta e coessenziale di apollineo e dionisiaco, di razionalità e irrazionalità. Solo così può essere, l’arte, giustificazione dell’esistenza, che consiste nella stessa irriducibile unità degli opposti. E fin da adolescente percepivo chiaramente queste due forti inclinazioni spirituali in me, e sentivo la necessità urgente di comporle in una unità.

Fra i tanti incontri importanti durante gli studi, qualcuno è stato particolarmente significativo per lei?

Moltissimi, in realtà. Da alcuni sono nate preziosissime amicizie, umane e professionali al tempo stesso. Ne sono molto grato, e per quanto riguarda in particolare la direzione d’orchestra sono molto grato di godere della stima e dell’amicizia di chi, grandissimo ed esperto maestro, mi fa dono dei suoi consigli e delle sue esperienze. Non è possibile progredire senza modelli, mentori, saggi consiglieri. Mi consenta, qui, di non fare però alcun nome.

Viceversa , ha trovato degli ostacoli sul suo percorso formativo, che hanno rischiato di metterla in crisi?

Gli ostacoli ci sono sempre, continuamente e anche tuttora. Ma gli ostacoli sono sempre un’occasione per verificare la propria vocazione, imparare da essi e crescere.

Perché  completare gli studi in Austria? Una scelta legata alla passione per il repertorio tedesco od una difficoltà legata alla situazione dei Conservatori italiani?

Questa scelta è stata legata principalmente a tre aspetti: sicuramente il mio amore per la cultura di lingua tedesca e il mio desiderio di approfondirla; il desiderio di studiare la direzione d’orchestra in un’istituzione di acclarata e solida tradizione didattica; e il desiderio di fruire il più possibile della frequentazione di concerti, recite e prove del livello più alto possibile. Vienna offriva per me la risposta migliore a questi tre desiderata.

Cosa ricorda degli esordi? Quali sono stati i titoli del debutto?

 

Il mio vero esordio (a parte qualche esperienza precedente e contestuale al mio curriculum di studi, o all’iniziale attività di assistente e maestro sostituto) fu con una recita di repertorio de Il barbiere di Siviglia, in Germania.

 

Il suo curriculum brilla per gli incarichi internazionali: direttore musicale del Festival Operistico di Klosterneuburg (Vienna),  Direttore Principale presso il Mainfranken Theater di Würzburg (Germania), Direttore Principale dell'Orchestra Filarmonica di Würzburg e Direttore Ospite stabile presso il Landestheater di Linz (Austria),oltre  ad una serie di spettacoli di successo al Festival di Bregenz. Quali sono le differenze principali fra i teatri ‘tedeschi’ e quelli italiani?

La sostanziale differenza è nel sistema di produzione delle opere. Mentre nei paesi di lingua tedesca è prediletto nella maggioranza dei casi il sistema di repertorio (più opere vengono prodotte e proposte simultaneamente, con una variazione ampia dell’offerta settimana per settimana, spesso sulla base di un ensemble fisso di cantanti a costituire le basi dei cast integrati dai relativi ospiti) in Italia si produce, come dicono i tedeschi, secondo il “Stagione-System”: un titolo per volta, con cast di ospiti mirati solo per quel titolo, con una concentrazione di prove e recite. Chiaramente questa distinzione caratterizza anche i tempi, l’organizzazione e la sostanza stessa del lavoro del teatro.

Ci sono differenze rilevanti fra il pubblico nostrano e quello tedesco ed austriaco?

Direi che il pubblico italiano è in generale ben più attento alla musica, e alle sue esigenze. Il pubblico di lingua tedesca è invece da decenni molto abituato a fissare l’attenzione prevalentemente sugli aspetti scenici e registici. Nei paesi di lingua tedesca prevale l’idea, in modo significativo proprio per i titoli più famosi del repertorio, di doverli rinnovare costantemente e conferire loro una legittimità di esecuzione fondata sul messaggio dell’idea registica, destinata a raccontare aspetti nuovi, inediti, a leggere per così dire nell’attualità il capolavoro.

 

Nel  corso della  sua carriera così prestigiosa c’è stato qualche episodio divertente, od un incontro che l’ha colpita particolarmente?

Certamente! Avrei naturalmente molti aneddoti da raccontare, molti di essi assolutamente esilaranti, a tratti anche comicamente sconcertanti. Mi viene alla mente uno degli ultimi episodi con un cantante in prova d’assieme in Germania: alle mie rimostranze per il ritardo di un intervento si è giustificato dicendo che esso era stato causato dal ritardo di un collega nel porgerli un requisito di scena indispensabile per dare senso drammaturgico all’intervento. Alla mia ulteriore domanda, piuttosto perentoria e sarcastica, se ritenesse di intervenire fuori tempo in recita, qualora la cosa si ripetesse, con mio sconcerto mi ha risposto di sì! L’immediata risata, fragorosa e divertita, dell’orchestra ha sollevato tutti dal disagio di quella risposta – soprattutto il povero cantante, che in questo modo, resosi conto dell’inconsistenza professionale di questo suo curioso manifesto, ha saputo capire e sorridere anch’egli di se stesso. Un momento davvero pirandelliano!

 

 

Raccogliere  fin da giovane tanti successi è stato sicuramente motivo di grande soddisfazione, ma immagino che l’abbia sottoposta ad una forte tensione, anche perché il ruolo del Direttore d’orchestra è certamente figura apicale e di grande responsabilità, che deve riuscire ad esaltare le capacità dell’organico, valorizzare le doti degli interpreti, cercare di coprirne i limiti. Come riesce a gestire le tensioni e le criticità?

Purtroppo non vi sono ricette, né formule magiche. Ho sempre creduto fermamente nella necessità di sviluppare una naturale autorevolezza, basata sulla massima competenza e preparazione a me possibile, sulla correttezza, sulla lealtà, sul rispetto di ogni persona, e ovviamente sulla fermezza. Per me sarebbe impossibile scindere questi aspetti, e alla fine si deve sempre essere autentici – in una parola: se stessi.

Sicuramente il direttore d’orchestra si trova spesso a lavorare con degli interpreti che non ha scelto di persona. Quando ci sono criticità o tensioni, come vengono gestite? Esistono delle figure chiamate a mediare, come gli ottimizzatori in televisione, o anche questo onere e sulle sue spalle?

Il direttore d’orchestra deve sicuramente farsi carico anche di questo, nel rispetto della professionalità di ognuno e sempre nell’interesse del teatro, mai del proprio. Una composizione delle differenze e delle tensioni è sempre possibile, naturalmente dipende anche dalla volontà delle parti in causa, o della controparte. Quasi mai mi è capitato di dover ricorrere ad interventi di sostegno altrui.

Nella  sua carriera ci sono anche alcune prime assolute e lavori di musica contemporanea. Insomma  il suo repertorio è vastissimo. Quali sono gli autori che sente più affini?

Difficilissimo dare una risposta univoca. Nella fase attuale della mia carriera sicuramente Richard Strauss e Richard Wagner. Ma questo non significa che il mio amore per tanti altri grandissimi, da Mozart a Beethoven, da Verdi a Puccini (solo per citarne alcuni) sia inferiore – anzi!

Ci sono invece dei compositori che sente particolarmente lontani dalla sua sensibilità?

Tutti i compositori di grande valore ci hanno lasciato lavori complessi, difficili, ardui e impegnativi. Le asperità da superare in fase di studio e poi di interpretazione sono sempre molte, e sempre diverse. In questo senso, se devo rispondere con grande serietà a questa domanda, sarebbe un vero delitto nei loro confronti fermarsi ad una superficiale corrispondenza di “amorosi sensi”, per così dire. Ritengo pertanto un dovere cercare di avvicinarsi il più possibile ad ogni compositore, comprenderlo il più a fondo possibile, ben sapendo della sua unicità ed accettando l’integrità di essa, ma anche la propria.

Ascoltandola  dirigere, viene spontaneo pensare alla gloriosa Vecchia scuola italiana, Maestri dalla  personalità fortissima, intellettuali raffinati e dalla solida cultura, che sapevano porsi al servizio dell’orchestra e delle voci, in grado di far sbocciare i talenti degli interpreti  e che riuscivano a plasmare sonorità suggestive, con un cesto quasi scultoreo. Fra   i grandi del passato c’è qualche  bacchetta che apprezza in modo particolare e perché?

Ovviamente è difficile rispondere senza avere avuto la possibilità di ammirare il loro lavoro dal vivo. Tra i grandi italiani direi però sicuramente Arturo Toscanini, Antonino Votto, Carlo Maria Giulini. E tra coloro di cui invece ho potuto fare esperienza diretta, dovendo limitarmi a solo due nomi, Claudio Abbado e Riccardo Muti. 

 

La  vita del direttore d’orchestra è sicuramente complessa e molto più faticosa di quanto possa sembrare. Che cosa la affascina di questo mestiere e che cosa invece la affatica?

L’idea costante, senza la quale sarebbe difficile poter affrontare un’attività come quella della direzione d’orchestra, è la consapevolezza di poter offrire al pubblico, nella complessità della sua composizione sociale e culturale, un momento di riflessione, fruizione estetica e esperienza spirituale in cui riconoscersi, conoscersi e identificarsi nella propria essenza di essere umano – in questo senso dunque di mettersi al servizio della collettività nel senso più nobile del termine. In questa fase della carriera gli aspetti che più mi affaticano sono immancabilmente legati all’enorme intensità degli appuntamenti, la complessità della preparazione di essi, l’ovvia pressione che un lavoro così esposto sempre comporta e le evidenti relative difficoltà di mantenere un equilibrio con la vita privata e una soddisfacente integrità  psicofisica, senza la quale è impensabile svolgere questa attività

 

Come  si conciliano famiglia, affetti, tournee e prove?

 

Sono in questo molto fortunato, avendo io una famiglia che mi sostiene senza riserve e accetta tutte le conseguenze del mio lavoro. La qualità del poco tempo libero a disposizione e un dialogo costante, aperto e responsabile sono l’unica chiave di volta per tentare questa conciliazione così complessa.

 

Gli artisti sono noti per scaramanzie e superstizioni. Ha un gesto scaramantico prima di andare in scena o qualche portafortuna?

 

No, confesso di non aver nessuna particolare portafortuna. Cerco però di mantenere una routine sviluppata e consolidata nel tempo, che mi garantisce di arrivare alle recite ed ai concerti nelle migliori condizioni possibili. Il fatto di osservarla con scrupolo e dedizione mi regala naturalmente anche sicurezza, e se vuole quella particolare funzione scaramantica che solo i rituali riescono a garantire.

 

Come  è arrivato l’incontro con Trieste? Il passato mitteleuropeo di questa città è pesato nell’accettare l’incarico di Direttore Musicale Stabile Designato del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste?

Ho conosciuto il Sovrintendente, Giuliano Polo, e il Direttore Artistico, Paolo Rodda, a Venezia nel 2022, in occasione di una recita da me diretta al Gran Teatro la Fenice de Le Baruffe di Giorgio Battistelli. A seguito del colloquio sono stato invitato a dirigere due produzioni, una sinfonica e una operistica, nella stagione successiva. Credo naturalmente che le mie esperienze artistiche e manageriali in terra tedesca abbiano sicuramente contribuito a delineare una visione comune che vede Trieste come punto centrale di riflessione culturale dell’intero ambito mitteleuropeo.

Quali  sono gli obiettivi che vorrebbe raggiungere in questo quadriennio?

Coerentemente con la visione che abbiamo per il Teatro Verdi sicuramente l’approfondimento e lo sviluppo interpretativo del repertorio tedesco, ma non soltanto: centrale deve restare la cura del grande patrimonio dell’opera italiana e non possiamo dimenticare gli altri poli della cultura europea, in primo luogo della tradizione slava, ma non solo.

 

Ascoltandola  dirigere l’orchestra del Verdi si ha la sensazione che lei stia riuscendo ad instaurare un rapporto sempre più solido, riuscendo ad esaltare le potenzialità dei singoli interpreti ed ottenendo delle risposte interessanti dall’organico. Quanto è importante che fra direttore e musicisti si crei un feeling? Lei cerca di creare una sintonia a tutto tondo o preferisce mantenere il rapporto su un piano prettamente personale?

La ringrazio per questo complimento, che è anzitutto un meritatissimo complimento per i professori dell’orchestra, artisti davvero di alto valore. Il nostro rapporto professionale è improntato al massimo rispetto, con una dedizione comune all’interpretazione più adeguata possibile di ogni pagina sinfonica o lirica. L’unità di intenti e lo scambio sempre aperto e reciproco è a mio avviso l’unico modo di creare la sintonia di cui Lei parla, fermo restando che proprio la valorizzazione di ogni singolo costituisce il segreto di un’orchestra compatta e qualitativamente all’altezza. In questo senso sono molto contento del lavoro che stiamo facendo tutti insieme.

 

La  stagione triestina 2024 25 è stata inaugurata dalla sua ‘Traviata’. La lettura è stata di grande impatto drammatico, con tempi dilatati, ricchi di suggestioni. Ci racconta la sua idea di questo amato titolo?

Un’opera difficilissima da interpretare, contraddistinta da un segno di poderosa chiarezza, alla prova dei fatti però di estrema complessità. Una caratteristica fondamentale di questa partitura, che ritengo essenziale per la sua esecuzione, è proprio la struttura architettonica dei tempi e quella armonica delle tonalità, la cui scelta è da Verdi estremamente ponderata e mai irrilevante, influendo sul carattere e sul suono in modo determinante. Impossibile capire, per esempio, la dinamica dell’innamoramento di Violetta e Alfredo prescindendo dall’impianto tonale del loro discorso musicale, così come i sentimenti di Germont padre, tutt’altro che univoci e lineari come a prima vista sembrerebbe. 

 

Invece  come sarà il ‘Vascello Fantasma’ in scena al Verdi dal 21 al 30 marzo?

Sarà come lo aveva pensato Richard Wagner, una forma grande di ballata drammatica al centro della quale si staglia come colonna centrale la vera e propria ballata di Senta. Per questo eseguiamo l’opera senza pause, scelta a mio avviso imprescindibile per rendere il discorso conchiuso, coerente e organico in tutte le sue parti.

 

Lo  spettacolo vede una importante collaborazione con un gruppo di coristi provenienti da illustri cori tedeschi, la quasi totalità dei quali appartiene al nucleo storico di Bayreuth. Certo una scelta importante e che premia il teatro. Com’è confrontarsi con una realtà cosi ricca di suggestioni artistiche e storiche . Un segnale che Trieste cerca di recuperare il ruolo di collegamento fra i teatri italiani e quelli di area slava e tedesca, che rivestiva fino ad una quindicina di anni fa?

Si tratta di un’opera dove il coro riveste un’importanza fondamentale e che necessita di un organico adeguato, soprattutto nelle sezioni maschili, divise in norvegesi e olandesi. Sono molto felice che siamo riusciti ad integrare il nostro ottimo coro con questi artisti esperti nel repertorio wagneriano, e in particolare arricchiti da una lunga frequentazione di questo titolo.

Ha  lavorato con registi che potremmo definire ‘di tradizione’ con altri più inclini a riletture moderne ed anticonvenzionali. Come si pone nei confronti delle  regie moderne? Crede che realmente danneggino lo spettacolo, come sostiene il pubblico più tradizionalista, oppure pensa che certe trovate, come Don Giovanni che conclude a Salisburgo l’opera cantando nudo, possano offrire degli spunti interpretativi interessanti?

Credo che la dialettica tra regia “tradizionale” e regia “moderna”, semplificando con questi termini una contrapposizione poi non sempre così netta, possa indurre per certi versi in errore. Non dimentichiamoci che la cifra di fondo dei grandi capolavori, indipendentemente da epoca e luogo di ambientazione, è sempre stata all’epoca della loro prima esecuzione quella della modernità, talvolta radicale. Titoli preclari del repertorio, di indubbia fama e seguito, sono stati al loro battesimo dei fiaschi colossali, quasi sempre proprio per la loro modernità. Il tentativo di riattualizzare il significato di questo patrimonio consolidato e conferire in sede di allestimento una connotazione adatta a raggiungere in modo più diretto la sensibilità del pubblico di oggi può davvero essere di grande valore. Anche qui è decisiva, a mio avviso, la forza del pensiero registico e il livello artistico della sua realizzazione. In questo senso non è dunque detto che vi sia un aut aut tra tradizione e modernità. Certo talora mi chiedo anch’io se alcune trovate siano davvero necessarie, e se talvolta non siano più che un valore aggiunto un inutile, talvolta pericoloso traviamento. 

Uno  degli elementi di  interesse del ‘Vascello Fantasma’ triestino è anche la  regia di un Maestro come Brockaus e le coreografie suggestive di  Valentina Escobar. Come si è sentito a confrontarsi con personalità dalla personalità artistica così forti?

Il rapporto di collaborazione è stato ottimo. Curiosità e stima reciproca hanno sempre caratterizzato il confronto, sia prima che durante le prove.

 

Le è mai successo di avere visioni opposte rispetto alle indicazioni registiche? Come si gestisce la situazione in quel caso?

Cerco sempre di chiarire diversità di vedute e gli eventuali problemi pratici che da essa possono sorgere già prima dell’inizio della produzione – e nel periodo di prove di analizzarli e discuterli nel modo più tempestivo possibile. Nella parte finale delle prove lo spettacolo deve crescere in modo unitario ed organico, ed è dunque dovere del direttore e del regista arrivarvi senza incongruenze, o almeno con meno incongruenze possibili.

 

Fra  i tanti spettacoli che l’hanno vista protagonista, ce n’è qualcuno cui si sente più legato, che più l’ha entusiasmato e perché?

Forse la Götterdämmerung di Richard Wagner, che ho concertato in Germania nel 2019. Si tratta di un vertice assoluto del repertorio operistico, e di dimensioni davvero imponenti. Vi sono arrivato dopo una lunga frequentazione di altri titoli del grande tedesco, e fu la mia prima esperienza con il suo Ring (fatta eccezione per una esecuzione tre anni prima del Primo Atto de Die Walküre). Da questo punto di vista un’esperienza straordinaria, e motivo di grande soddisfazione per me, italiano in terra tedesca, essere stato nominato per quella concertazione come Direttore dell’Anno dalla prestigiosa rivista “Opernwelt”

 

Qual è il suo rapporto con recensioni: le legge o, come faceva la Simionato, le evita ?

Cerco sempre di leggerle, anche se ultimamente è diventato più difficile per motivi di tempo.

 

Cosa le piacerebbe leggere di lei? Invece cosa le dà più fastidio?

Mi piacerebbe leggere sempre parole competenti, oggettive e in cui io mi possa riconoscere pienamente, anche quando (per fortuna non capita spesso) mi vengono avanzate osservazioni critiche, da cui cerco sempre di trarre spunti nuovi. Quando invece questo non è il caso, soprassiedo in genere molto velocemente - anche se mentirei se dicessi di non esserne infastidito. 

 

Quali sono i prossimi impegni?

Subito dopo Der fliegende Holländer sarò in Austria per una nuova produzione del Guillaume Tell di Rossini, un’opera che affronto per la prima volta.

 

Infine, ringraziando per la disponibilità e la cortesia, quali i suoi sogni?

Sarò banale, ma ho avuto già la grandissima fortuna di poter realizzare con la direzione d’orchestra una vera e propria vocazione. Mi auguro di poter continuare quest’attività così impegnativa, ma così gratificante, per molto tempo ancora, e di poter affrontare tutti i grandi capolavori cui vorrei dedicarmi, ma che ancora non ho potuto frequentare. E nella sfera privata di poter contare ancora e sempre sulle persone straordinarie che ho la fortuna di avere al mio fianco.

 

 

Gianluca Macovez

21 marzo 2025

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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