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Chi è Paolo Fosso e come nasce la sua passione per gli scacchi?
“Chi è Paolo Fosso”, forse è la domanda più difficile cui rispondere in Assoluto, come - credo - per ciascuno di noi. Lo dico sorridendo. Al di là delle note biografiche (le esperienze professionali come attore e autore al cinema, teatro, televisione; degli studi e di un’esperienza come avvocato; della vita familiare, sposato e con due meravigliose figlie già più che adolescenti; al di là di alcuni Hobbies (la pipa, la storia, la letteratura, appunto gli scacchi) mi vedo costretto a dire che ancora non ho ben capito “Ch’io mi sia” come avrebbe detto Ippolito Nievo. Diciamo che sono un uomo che vive di passioni assolute ed in continua ricerca. Di me stesso, prima di tutto. Ma anche un uomo con un “vizio assurdo”: quello della curiosità per la Vita, per le persone, per le storie e gli incontri che la Vita stessa, a piene mani, dona ad ogni passo.
La passione per gli scacchi (premetto che sono una schiappa assoluta!!!) me l’ha instillata mio Padre, insieme alla Curiosità di cui sopra; ricordo esattamente il giorno in cui tirò fuori la scacchiera, mi spiegò i pezzi, li mise in ordine, cominciammo a giocare, avrò avuto otto anni. Per un po’ gli chiedevo spesso di giocare. Poi ci stufammo tutti e due. Però gli scacchi, con le sue regole, i suoi nomi evocativi e carichi di sottintesi (la Torre, il Re, il cavallo, la Regina da difendere e da conquistare…..) continuavano a lavorare. Sonno uno sport estremo, gli scacchi. Un duello di cervelli. Si gioca a scacchi nelle società culturalmente evolute (nascono fra gli Arabi, i Russi sono maestri, i Cinesi li amano…. si potrebbe costruire una diplomazia della pace sugli scacchi), sono utilizzati per le simbologie esoteriche, insomma, hanno sempre avuto un significato “altro”.
Seriamente, come nasce il testo di "Come il nero negli scacchi"?
Volevo fare i conti con una componente di me stesso. Riordinare alcuni episodi di vita. Fermare il ricordo di alcune persone importanti per me. Raccontare di cose che si intrecciavano con esperienze estreme che sentivo raccontare sempre più spesso e che stanno diventando una componente molto frequente nella nostra società: l’ansia, nei suoi vari stadi; gli attacchi di panico; disagi psicologici che da apparenti stati di umore diventano vere e proprie patologie invasive, che schiacciano l’esistenza, che limitano gli spazi di libertà e di vita. Spesso si manifestano all’esterno con atteggiamenti goffi che suscitano ilarità o compatimento, che sono, in realtà, la manifestazione esteriore di una sofferenza interiore spesso devastante. In periodi di crisi, come quello che stiamo vivendo, sempre più persone soffrono di ansia. ma spesso ci si ferma al sintomo. Bisogna invece andare a fondo, capire se stessi, guardare in faccia i propri buchi neri. ed allora, quella che può diventare una malattia invalidante diventa invece una meravigliosa opportunità per guardare la Vita con occhi nuovi.
Ripartiamo dagli scacchi: elemento letterario e Immaginifico quant’altri mai: la partita a scacchi di Giacosa; la partita a scacchi con la Morte del “settimo sigillo” di Ingmar Bergman….. e potrei continuare all’infinito, fino ad un ricordo professionale personale. In uno spettacolo teatrale al quale partecipai “Il banchiere anarchico” di Pessoa, con Giulio Base che ne aveva curato l’adattamento e ne era protagonista oltre che regista, tutta la vicenda si svolgeva durante una partita a scacchi ed il testo assumeva un valore ancor più simbolico.
Volevo raccontare una partita per la vita. di un uomo, il protagonista, che sente di avere un fardello, quello delle patologie legate all’ansia, che lo fa giocare svantaggiato. Ripensai all’antica tradizione di gioco secondo la quale, a parità di abilità media, il giocatore che riceve in sorte la pedina nera ha il 56% di possibilità di sconfitta.
Volevo poi che dall’ilarità per alcuni comportamenti esteriori si arrivasse a raccontare cosa davvero prova dentro di se la persona che controlla cento volte che la porta di casa sia chiusa o che le forchette siano bene allineate sul tavolo, cosa significano questi gesti e fino a quale livello di sofferenza si può arrivare.
Volevo raccontarlo con i mezzi del teatro: passando in un solo istante, in una sola frase, dalla risata alla tragedia, per tornare a ridere, per poter riflettere.
Quanto c'è della vita reale di Paolo Fosso in questa tragicommedia?
Potrei dire che la mia presenza oscilla fra il molto ed il quasi nulla. Molto, perché sono un ansioso; perché la molla dello spettacolo, come dicevo prima, è stata l’esigenza di mettere ordine in alcuni episodi della mia vita che si intrecciavano con un male sociale. Molto, perché il personaggio fa il mio mestiere ed ha vissuto alcune delle mie esperienze; moltissimo, perché, come sempre, anche quando invento vado a mettere dentro i miei stati d’animo, i miei sentimenti, la mia crescita personale; molto, perché faccio le mie considerazioni al momento di scavalcare i cinquanta anni su alcuni temi inevitabili: l’invecchiare, la perdita di persone conosciute, amate, stimate, cosa si era “prima”, cosa si è “dopo”, sulle donne, la sessualità; molto, perché, dopo aver fatto quel viaggio dentro me stesso che è la psicanalisi, ho indagato l’ansia ed il modo di affrontarla attraverso di essa, documentandomi, studiando, intervistando, ma anche immedesimandomi; perché ricordo la persona che mi è stata vicina in tutto questo: viaggio e documentazione, che è il Professor Concetto Sergio.
Quasi Nulla mi sembra poi, quando lo spettacolo parte, incontra il pubblico, diventa altro da te e le persone che lo hanno visto ti vengono a dire di essersi riconosciuti in quel racconto, nel protagonista, di aver capito qualcosa di più di sé, di aver voglia di andare a fondo su alcune cose di se che avevano, finora, solo sospettate. Ti accorgi allora che il racconto non è più il tuo, ma che appartiene a tutti. E a te sembra di aver raccontato solo un sogno. Un sogno molto reale.
Dopo il diploma al Laboratorio di esercitazioni sceniche diretto da Gigi Proietti inizia il suo lungo sodalizio artistico con Alessandro Gassmann, che ricordo ha di questa esperienza e quanto ha influito sulla sua formazione?
Beh, sono due esperienze fondamentali della mia vita professionale ed umana. In termini assoluti. Che si collocano in due momenti temporali molto diversi, professionalmente e come Età dell’esistenza: la giovinezza di un giovane di provincia che si vede spalancare davanti di botto la Vita, oltre che un mestiere sognato e forse idealizzato, nel primo caso; un incontro professionale in età matura con un grande professionista mio coetaneo ma con tanta esperienza in più e che era, in quel momento, sul punto di iniziare la carriera di regista teatrale che lo ha fatto diventare, oltre che il grande attore che è, un regista di punta ed innovativo della scena italiana, uno di quelli che maggiormente sa mettere in scena le emozioni ed arrivare al cuore del pubblico.
Il Laboratorio fu un’esperienza totalizzante. Il contatto quotidiano con un gigante assoluto della scena italiana quale è Gigi Proietti, che si rivelò essere un grande Maestro (invito a fare il calcolo di quanti dei protagonisti dello Spettacolo oggi provengono da quella scuola: tantissimi), coadiuvato da altri insegnanti straordinari, ma anche l’incontro e la vita quotidiana con i miei compagni di corso, tutti persone eccezionali che oggi hanno un posto ben preciso nel mondo dello spettacolo. Tutte personalità fortissime, complesse, profonde. Persone con cui esplori la Vita, che si mescola all’Arte e con le quali resta un legame indelebile. Fra di loro c’era Vittoria Piancastelli, che ci ha lasciati lo scorso anno. La voglio ricordare qui come artista: uno dei più bei talenti e delle più belle intelligenze femminili italiane di questi anni. Il Laboratorio era un luogo ideale dove circolavano energie e idee. Echi di quell’esperienza li racconto nello spettacolo.
Con Alessandro Gassmann ho affrontato tre spettacoli, con la sua regia e di cui era anche protagonista. Due testi di Thomas Bernhard e “La Parola ai Giurati” di Reginald Rose, testo da cui fu tratto il film con Henry Fonda. Fu l’incontro maturo con il mestiere: le lunghe tournées, le cento città di un’Italia attraversata in lungo e in largo, l’incontro con un autore difficile come Berhard e di una tematica attuale e scottante come quella sulla pena di morte. Alessandro è un grande regista, come ho detto, da cui si ha molto da imparare. Fu anche una meravigliosa esperienza umana: le compagnie di Alessandro sono sempre formate da belle persone, anche perché lui sa motivare nel profondo chi lavora con lui. Non è solo mestiere: è credere in un progetto. E questo è il modo di lavorare che preferisco. Anche due attori di quelle straordinarie avventure non ci sono più: Nanni Candelari e Manrico Gammarota. Mi piace ricordarli e ricordare, di Manrico, la grande carica umana che trasfondeva nei personaggi.
Un invito ai nostri lettori romani per venire a seguire questo spettacolo al Teatro Sala Uno.
E’ uno spettacolo che mette in scena emozioni e ne suscita al pubblico. che racconta di un uomo ma racconta di molti. Una storia che è un’esperienza di vita che in tanti, tantissimi condividono senza saperlo. Un’occasione per ridere, emozionarsi, piangere, riflettere. E sentirsi meno soli.
…. E per vedere una certa Roma (si, c’è anche lei nel racconto!). una Roma notturna di un’epoca, gli anni fra gli ’80 e i ’90, che appare lontanissima, anche se è quella in cui tutti noi ci siamo formati ed alcuni degli spettatori sono nati.
Fabio Montemurro
14 gennaio 2016