Lunedì, 16 Settembre 2024
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Patrizia Schiavo E TEATRO CITTÀ. Il teatro che parla alla periferia

#andiamoateatroIncontro Patrizia Schiavo in occasione della Rassegna al femminile che parte nel nuovo Teatro Città, centro di ricerca teatrale e musicale sorto da pochissimo tempo a Torre Spaccata. Un nuovo spazio, una nuova realtà, in una Roma periferica che necessita di aprirsi e sperimentare. Donna dal forte temperamento e dal portamento fiero, Patrizia, fra uno scambio di riflessioni congiunte, racconta di lei e di com’è nato questo nuovo cantiere creativo. 

 

So che lo nascita dello spazio porta con se una storia che potremmo definire interessante e anche travagliata. Come nasce questa realtà, da quale intuizione?

Il tutto ha avuto inizio quando decisi di ritornare a Roma dopo una lunga esperienza di teatro in Svizzera, dove nel ’94 fondai una compagnia e passai diversi anni della mia carriera di attrice nelle compagnie di giro. Con grande fatica, ho capito che non ero portata a svolgere quel lavoro per troppo tempo, volevo una mia dimensione, uno spazio di autonomia creativa. Iniziavano a pesarmi e a starmi stretti i meccanismi del teatro ufficiale. Avevo iniziato a insegnare a Firenze, scoprendo questa grande passione per la trasmissione e l’insegnamento e decido di dedicarmi alla ricerca di un luogo dove si potessero sposare questi due intenti, l’autonomia creativa e la possibilità di trasmettere. In Svizzera ciò poteva accadere con molta più facilità rispetto a Roma che è dispersiva e fagocitante, lì se facevo domande ricevevo in tempi brevi delle risposte e iniziò, quindi, quest’avventura. Mi vennero dati finanziamenti e spazi dove lavorare, furono begli anni di collaborazione con la Germania per un progetto contro il razzismo, con l’Olanda e una sua compagnia interessantissima. Per motivi personali, la nascita di un figlio e poi di un secondo, decido di ritornare a Roma e comincio a interessarmi di spazi, poiché ero orfana di spazio. Rientro nelle selezioni di artisti che fanno richiesta, ma le istituzioni cambiano, ad ogni rinnovo le vecchie pratiche vengono riprese e procedono con rilento, insomma passano gli anni. Un giorno arriva una telefonata, la mia associazione Cnt era rientrata nella rosa di associazioni a cui era stato assegnato uno spazio. Ricordo di aver inoltrato la domanda, certo, ma otto anni prima. Da lì inizia il lavoro col comitato di sviluppo locale, i progetti di riqualificazione di quest’area abbandonata, un percorso durato ben nove mesi, un parto, anche agognato. Vengono poi assegnati gli spazi secondo le esigenze di ognuno e a noi è toccato uno degli spazi più grandi. In totale stato di abbandono, usato come una vera e propria discarica. Partiamo con molto entusiasmo, investiamo di tasca nostra, non avevamo assegnazioni per partecipare ai bandi, volevo mollare tutto, ma ad un certo punto era diventata prioritaria la ricerca di un luogo e il viverlo una volta trovato, il crederci, il sentirlo attivo e, quindi, partiamo da qui.


Quali obiettivi artistici e civili si propone questo spazio, cosa vuole comunicare?

Il teatro è un luogo dove si passa, un luogo di transito dove c’è una permanenza, anche se momentanea, e quindi una trasmissione. Io, poi, sono una che ha bisogno di stare in trincea e amo le sfide. Mi ha sempre interessato un teatro di impegno civile in parallelo con un lavoro sulla drammaturgia . Seguire due filoni che sono il sostenere un teatro civile per aprire qualche cassetto di consapevolezza, soprattutto in un quartiere che vive le dinamiche della periferia. Si sa che i problemi e le mancanze in periferia, generalmente sono più sentiti, maggiormente visibili. Un quartiere che presenta delle forme di degrado e viene anche abbandonato ha bisogno di spiragli creativi. E in più voglio incentivare la nuova drammaturgia. In Inghilterra ci sono continue menti che escono allo scoperto, numerosi autori che escono fuori, perché lo Stato li paga e incentiva a scrivere. Noi non possiamo pretendere ciò, stando alla nostra situazione economica e anche organizzativa, nonché mentale in certi casi, ma almeno offriamo un’ulteriore casa per esprimersi e esprimerci.


C’è urgenza di riqualifica anche e soprattutto in un periodo di sgombero degli spazi. Il Teatro Città rappresenta uno stimolo per il quartiere, inscrivendo la vostra filosofia nella politica del decentramento della cultura.

Anche questo è un obiettivo che poi si è andato concretizzando nella formazione dello spazio, quello del sostegno, del supporto e della valorizzazione delle periferie. In una delle nostre serate si è parlato proprio di questo. Abbiamo avuto come ospite Pippo Di Marca che ha fatto un’introduzione alla serata molto interessante. Questo discorso del decentramento, diceva, è partito dagli anni ’70 e, così, ci ha raccontato un po’ dei progetti e delle idee della precedente classe teatrale. Comunque ne stiamo parlando ancora oggi come un qualcosa che si deve attuare, come un nodo culturale che ancora non si è risolto. Poi, per quando riguarda il periodo, sì, è vero … noi ci muoviamo con una realtà che ha ottenuto un’assegnazione, ma il clima è pesante e ostacolante verso le realtà nascenti, autogestite. Il giorno prima della nostra inaugurazione c’è stato il tentato sgombero del Corto Circuito, una realtà esistente da anni nel territorio romano. Un senso di precarietà ha penso investito un po’ tutti. Ho iniziato con non poca ansia addosso, ma comunque credendoci.


Sei nel mondo del teatro da un po’, hai collaborato e sei cresciuta vicino a grandi nomi, arrivi da un’esperienza totalmente artistica, adesso ti trovi alla direzione di un teatro e differenti sono le responsabilità. In ogni caso inglobi entrambe le prospettive. In cosa lo vedi cambiato e di cosa ha bisogno oggi il teatro?

Percepisco un grande peggioramento, anche se le idee e i talenti ci sono. Io, partendo dal mio percorso, ho avuto la fortuna da subito, anche per delle caratteristiche fisiche e vocali, di assumere un certo rilievo negli spettacoli. Mi hanno affidato subito ruoli da prima attrice e prendevo parte, dunque, alla vita piena del teatro. Un teatro che ancora girava, un anno o due di tournée erano quasi scontati. Adesso anche il teatro di giro o il teatro commerciale fatica a sostenere certi ritmi, a meno che non ci sono nomi televisivi che attecchiscono. Inoltre, ho iniziato in un momento in cui l’attore di teatro aveva un valore, non che adesso sia totalmente screditato, ma prima c’era una sorta di rispetto per la gente di teatro. Vorrei esprimere una prospettiva propositiva, e nonostante la disillusione io credo ancora molto a delle svolte. Il teatro avrebbe bisogno di andare dalla gente, di progetti che riescano ad avvicinare le persone in maniera diversa. Capire che la realtà teatrale non è un qualcosa di lontano o estraneo a loro, e per far ciò non si deve giocare sul nome di un artista, lo scopo è avvicinare proprio alla cultura teatrale che mantiene una sua umanità. Offrire anche dei prezzi popolari per prodotti di qualità. Rendere una formula che soddisfi il pubblico, ma anche l’artista che deve essere giustamente retribuito, e qui serve l’appoggio delle istituzioni. Mi viene in mente una formula che decisi di recuperare gli ultimi anni in Svizzera. Un anno dissi: Voglio sperimentare la vecchia idea del teatro di appartamento, in voga negli anni ‘70. Un amico artista offrì la sua casa in pieno centro storico, quelle abitazioni meravigliose per allestire scene, case con porticati e corti. Era un’idea molto interattiva, a contatto con il pubblico e sarebbe diventato, sicuramente, un appuntamento fisso. Iniziarono a chiedercelo anche degli albergatori. Il discorso di me alla direzione, poi, mi lusinga e spaventa un po’. Ci sta, per forza di cose, che qualcuno assuma la direzione artistica di un luogo, che sia riconosciuto come tale e abbia delle responsabilità. Io, però, ho sempre pensato a una co-partecipazione. Ciò che mi auguro è di trovare dei gruppi con cui si possa gestire assieme, sembra utopico in una società dove ci deve stare qualcuno che comandi, ma è una possibilità che vedo. Anche perché se troppe responsabilità vengono gestite solo da una persona non si ha poi il tempo e l’energia per fare altro e io non voglio cristallizzarmi nel ruolo di direttrice artistica, ma vivere anche lo spazio magari con lavori anche miei. L’essere poi da entrambi i lati, artistico e di gestione, influenza ed ha un doppio risvolto, rende anche più faticoso a volte il lavoro, perché comprendo i loro bisogni e magari mi distraggo da quelli dello spazio, nel contempo è positivo, un valore aggiunto, proprio perché entro in empatia.


Nella cerchia dei tuoi tanti lavori troviamo Studio di donne senza censura. Adesso hai lanciato il teatro con una rassegna al femminile, grande attenzione alla figura della donna, dunque. Cosa ci verrà proposto in seguito?

Il seguito lo stiamo preparando, per ora continua la semifinale della rassegna femminile di corti che spero si evolverà in una messa in scena di lavori completi. La nuova drammaturgia si occupa molto di più delle voci femminili, ma abbiamo alle spalle anni di drammaturgia dove il ruolo della donna come autrice era marginale e quindi, da un lato, c’è voglia di trovare più testi possibili che si occupino del femminile e della scrittura al femminile. Le donne, poi, ne hanno fatte tante di conquiste, ma qui, in Italia specialmente, siamo ancora lontani da alcuni concetti chiave, non è radicato totalmente un concetto di uguaglianza, ad esempio. Comunque spero di portare avanti anche un discorso sulla drammaturgia. Elaborare dei concorsi per drammaturgia e regia. Ho iniziato il mio laboratorio dove seguo un gruppo col quale provo a creare cicli di pochi mesi che generino come frutto una messa in scena. Per il resto tutto è felicemente in evoluzione.

 

Erika Cofone
03/11/2016

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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