Venerdì, 22 Novembre 2024
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Questcequetudeviens? Un viaggio nel flamenco per conoscersi

Recensione dello spettacolo Questcequetudeviens? in scena al Teatro Vascello dal 19 al 22 novembre 2015

In scena al teatro Vascello uno spettacolo di danza e domande esistenziali Questcequetudeviens? (Che cosa diventi?) La potente e comunicativa regia di Aurélien Bory incontra l’espressiva danza di Stéphanie Fuster, francese di adozione andalusa, in uno spettacolo a lei interamente dedicato, 

Quando la danza è alta, la formula del suo linguaggio trasmette e arriva con maggior potenza e sicurezza, consapevole della sua riuscita. È il caso dello spettacolo di Bory che chiede manifestamente: “Cosa diventi?” una domanda che si snoda per tutta la rappresentazione prendendo forma in uno spazio scenico occupato da una piattaforma rialzata, un cubo illuminato, lasciato lì come residuo di qualche materiale abbandonato e un conteiner che ricrea una micro sala prove compresa di specchio e parquet.

Tutti questi elementi saranno necessari per lo svolgimento dell’azione che parte su di un palco buio, tagliato da una luce, elemento fondamentale che sa cosa illuminare creando una combinazione efficace col corpo tanto da restituire dettagli ben definiti. In mezzo al buio appare una sagoma, una figura rossa che spezza e contrasta con l’incolore della scena, una donna in un abito dalle evidenti forme sartoriali andaluse. Da subito si avverte il fremito sotterraneo,  un vibrato che potrebbe sgusciar fuori in uno scatto coreografico di mani o in un attimo fulmineo e istantaneo, un piede che batte il terreno e si impone. Si percepisce il flamenco, un qualcosa di impalpabile ma esistente, si aggira nella sala e ogni spettatore lo capta. Vale ciò che García Lorca diceva del duende: “Questo potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”.

È bastato, dunque, il solo ingresso della danzatrice per riempire l’aria di lamento e gioia, profonda nostalgia e passione viscerale, tutte le componenti dell’antico ballo di origine gitano-andalusa. In un primo momento la ballerina appare disorientata, con lo sguardo, non nei gesti. Il corpo è sicuro e inizia a dare accenni della sua bravura, della tensione del flamenco, della sua energia. Qualche movimento, però, è meno libero di altri, non si arriva al punto di rottura, al momento in cui il flamenco esplode, si mantiene sempre una sorta di meccanicità della danza. Nelle movenze, nell’incrocio delle braccia, nel ritmo e la postura si intravede quel concetto essenziale del ballo che la Fuster  ha assorbito,  ma che in lei sta per trasformarsi, cambia pelle, muta. Quel vestito rosso le scivola di dosso, poi si rialza, si stacca da lei come una corazza, è un vestito appeso a fili che lo adagiano e allontanano dal corpo. Si riavvicina, lei lo abbraccia come si abbraccia un pezzo d’anima, quel vestito rosso  fa parte della sua essenza, ma deve anche staccarsi, liberarla. Deve emergere e prendere forma la personalità della ballerina, nella danza, così come nella vita.

Sembrerebbe un allontanarsi dai dettami della tradizione, in realtà è un baile all’ultimo colpo di tacco con i mille simboli del flamenco, un vero e proprio studio di rispetto e amore per quel folclore di trasporto che si allestisce, però, con la consapevolezza  di poter sviluppare una visione nuova a favore dello sperimentalismo. Il baile si esibisce in contesi non soliti, ad esempio nella trasposizione in quella piccola sala prove, dove assistiamo all’impegno, al ritmo che aumenta, il flamenco che sale, la ricerca a suon di battente, l’ espressività, la resistenza necessaria in quel ballo che promette aperture sensoriali e amplificazioni di percezioni. Il flamenco è qui mezzo di evoluzione, movimento e trasformazione, da quei gesti atavici di memoria del corpo si organizza un’urgenza di andare avanti nel percorso di formazione della propria individualità.

La ballerina si avvicina allo specchio, si scruta, osserva e permea, si riflette e si sdoppia in un’immagine per sentirsi ancor di più parte di un unico centro. Il tutto avviene in bellissime sequenze poste in riprese dove lo spettatore può godere dei tendini tesi a raggiungere l’ascesi. Movimenti precisi, puliti che ricordano come il flamenco sia  una catarsi, una liberazione delle passioni che procede in un climax ascendente inseguendo il paseo e lo zapateado, colpi decisi, cadenza, impulso, temperamento, passione che trasuda, respiro più denso,  fierezza della donna in gesti geometrici ma comunque accoglienti e armonici, aumento del ritmo teso fino a trattenere un grido che vorrebbe schioccare assieme all’ultimo colpo del piede sul suolo e scoppiare in un Olè!  Accade tutto questo in quella sala prove improvvisata, con la Fuster che appare e scompare, seguita sempre dalla musica e dal canto. L’intero spettacolo si arricchisce di due altre presenze affatto secondarie, la voce del cantor José Sanchez e la musica del chitarrista Alberto Garcia. Il flamenco, infatti, nasce prima di tutto come canto, “il cante jondo, una sorta di pianto musicale conturbante e roco, che sa parlarci dell’amore e della morte” e la chitarra ne segue il movimento e lo sviluppo. Il pathos dei tre addensa la scena di variazioni coinvolgenti e in un’ora di spettacolo dal rosso del fuoco si “giunge all’aria e al confronto tra il movimento coreografico e l’acqua”.

Si passa alla pedana che inizia inondarsi lentamente d’acqua fino ad essere totalmente allagata. In uno slancio finale la danzatrice, prima con accenni, poi con movimenti sempre più dinamici e spavaldi, esplode in gesti e passi in successione. In un rischio perenne di scivolare sul bagnato lei domina il pavimento, il fuoco balla sull’acqua e non si spegne, la sensualità del flamenco mista alla sua tenacia,  il braceo, le figure coreografiche delle braccia e la rotazione delle mani continuano fino a terminare in cadute. Inondata da quell’acqua metaforica, si lascia andare, libera nelle dissolvenze d’acqua.

Erika Cofone 

26 novembre 2015

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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