#recensione dello spettacolo Ubu me, in scena al teatro Studio Uno dal 24 novembre al 4 dicembre 2016
Nel nome della patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie, al Teatro Studio Uno, va in scena una funzione patareligiosa (delle religioni improbabili), per ricordare le gesta orribili e grottesche di Padre Ubu. La regia di DivisoPerZero allestisce un mondo astratto e bizzarro, alla maniera eccentrica di Alfred Jarry, padre di Ubu, creatura ripresa poi in numerosi ambiti. Un mondo altro che si fa portavoce di contenuti amari e resi ridicoli, conoscibili e paragonabili.
Un commiato e la narrazione di una storia che prende vita in un mondo di stracci e marionette. In quel ritaglio accogliente di Torpignattara che è lo Studio Uno, va in scena la storia di Ubu, il re Ubu, Padre Ubu. Una storia che la regia di DivisoPerZero, a teatro e in un centro d’accoglienza, racconta attraverso il linguaggio autentico di marionette non circoscritte nel piccolo teatrino di legno a cui si è abituati. I burattini, le sagome, i pupazzi di stoffa imbottita d’ovatta e le figure di cartapesta creano e ricoprono un’intera scena, rendendo la manifattura e l’artigianalità gli elementi principali determinanti l’originalità dello spettacolo e l’aderenza al personaggio inventato da quel visionario che fu Alfred Jarry.
La vicenda, tratta proprio dal suo libro, viene descritta in una formula ideale sia per avvicinare i più piccoli alla comprensione delle dinamiche insidiose del potere e del suo abuso, sia funge un po’ da memoria per gli adulti, che fra i sorrisi suscitati dalla messa inscena, afferrano una verità amara e conosciuta. Il grottesco è, infatti, l’espediente utile e utilizzato per comunicare, ironia e riflessione sono qui condensati in un teatro di stoffa, che permette l’avvento di quel meccanismo di cui monsieur Alfred diceva: “Quello che fa ridere i bambini fa paura ai grandi.” E i due attori, Francesco Picciotti e Francesca Villa, riescono a ricreare tale meccanismo. A volte si cammina su un terreno sdrucciolevole per il testo e la drammaturgia, ma il sapiente impegno, la sintonia fra i due, l’arte della simbiosi fra attore e elemento di carta e pezza ristabiliscono l’innesco, e la storia di Ubu va avanti. Ubu è l’incarnazione del ridicolo e della paura, il despota, il sovrano, il tiranno che si mostra nella sua tragicomicità.
Essere ripugnante, deforme, che per accrescere il suo potere ricorre a raggiri e violenze, un essere sgraziato che allarga il suo stomaco in base alla sua avidità, che da piccola marionetta di legno diventa fantoccio di cartapesta, goffo, sproporzionato, appesantito dalla sua smania e dalla sua fame. Si estende Padre Ubu e con lui la scenografia, luci e ombre simulano scenari e scenario diviene lo stesso ventre di Ubu, il suo centro, la grande spirale che ipnotizza (il potere è un circolo che risucchia e stordisce. Quella spirale stordisce il re sempre più addentrato nel vortice degli eventi di ascesa e decadenza e stordisce noi per quel senso di smarrimento e assurdità che scaturisce dalla storia e la sua trasposizione fantastica).
Un essere che dovrebbe incutere timore Ubu, ma non può non suscitare anche risa e, forse, un po’ pena. Padre Ubu, creatura pata e metafisica, “è personaggio 'scandaloso' perché appunto incapace di rispettare quello che il senso comune si aspetta”, per questo ha un suo lato ambivalente che ripudia e incuriosisce, il suo essere eccessivo, smisurato, privo di pentimento o rimorso è la faccia dello scellerato usurpatore senza umanità alcuna, e contemporaneamente è l’emblema di atteggiamenti sovversivi che non possono non affascinare (se solo fossero proiettati verso giusti fini…) Ma in fondo Ubu è l’incarnazione della parte più malsana di ognuno, “è il compendio caricaturale di tutto ciò che di ignobile, sciatto, vile e disgustoso nasconde l’uomo che vive in società” e l’uomo che sale al potere ne è la rappresentazione estrema. Come nella celebrazione di una funzione, dunque, i due attori ci portano a celebrare Padre Ubu, una figura che in fondo non possiamo sentire un po’ nostra e dalla quale appunto possiamo distaccarcene, lo spettacolo questo ci segnala, permettendo al pubblico uno sguardo riavvicinato, grazie anche all’elemento marionettistico che ha potenza di attrazione, e pur essendo un qualcosa di materialmente esterno e distaccato funge perfettamente da mediatore comunicativo grazie al burattinaio capace che sa trasferire e riportare.
Un leggero momento teatrale, che stimola curiosità e riflessione, e riflettendo appunto vien da pensare: Guardiamoli da vicino, poi, questi nostri potenti. Ci accorgeremo di come in realtà siano grotteschi e fantocci anche loro, di come fanno tutti un po’ ridere nel loro essere caricatura di se stessi, nel loro impegno da farsa e nella loro vuota messa inscena. Fanno ridere i potenti, oltre a fare pena anche loro, come Ubu (per il quale si può, però, provare un minimo senso di tenerezza).
Erika Cofone
11 dicembre 2016