Recensione dello spettacolo Porcomondo, in scena dal 6 all'11 Dicembre 2016 presso il Teatro Dell’Orologio di Roma
È l’amara testimonianza della vita quotidiana quella che viene a diramarsi dalla rappresentazione del giorno di Natale; ma non un Natale qualunque, perbenista e ipocrita come le insegne luminose dei negozi si prodigano a divulgare. È il Natale di chiunque, sciagurato abitante di un Porcomondo, dove il giorno più bello dell’anno è il forzato (e fallito) tentativo di intasare la bocca dello stomaco con il panettone pur di evitare la detonazione di una pericolosa mina.
Ma l’esplosivo accumulato nel corso del resto dell’anno, e della vita, smaschera con sconcertante rapidità i buoni propositi. I corpi agghindano la propria agghiacciante nudità a festa, per nascondere, almeno alla vista, quei lividi sottocutanei che si sono inferti a vicenda. Purtroppo, però, a poco serviranno maschera e trucco: presto l’impressionate vuoto che li circonda torna ad investire la debole coppia. Le speranze disilluse, le aspettative frantumate riemergono come cadaveri dalla terra arida, divenendo il solo possibile humus per continuare a sopravvivere. Subdolamente vestita di bianco, magari nascosta tra i riccioli biondi della parrucca di Marylin, l’avvilente e perpetua sconfitta si riaccende, rivelando apertamente il reale sentimento del Natale, della coppia senza nome, tanto disinteressata a se stessa quanto lo sono singolarmente i propri componenti per sé medesimi. La cinica indifferenza che li lega si tramuta in odio e disprezzo quanto più si tenti di evitarla e schizza via come lo spumante agitato freneticamente nella bottiglia, bagnando quegli abiti cerimoniali che si appiccano ai corpi, lasciando trasparire di nuovo quell’imperativo senso di niente.
Lo spazio stesso si addobba di fosca latenza, quasi da voler sembrare lo specchio che moltiplica l’immagine che vi si riflette. Ed ecco, allora, il perché di quella tanto acuta e disperata lotta fisica, mentale ed emozionale, che i due combattono in maniera esageratamente folle. L’accurata drammaturgia di Francesca Macrì rimpinza i suoi protagonisti di tutto quanto sia possibile, li affoga nelle loro stesse verità e bugie, li sotterra sotto un pesante strato di insofferenza, rabbia, noia, insoddisfazione, e poi si siede ad ammirare la truculenta e macabra danza di quello che, forse, era meglio non svelare: nevrosi, amore, perversione, pedofilia si confondono, si mescolano, senza capire più chi, tra i due, sia la vittima e il carnefice.
“Magari, se il Natale non fosse esistito, sarebbe stato meglio”, pensa Lui. Forse, così, si sarebbero almeno risparmiati qualche chimerico sentimento la cui ingannevole esistenza, alla fine, non fa altro che caricare, con ancora più vigore e animosità, la miccia della bomba. È così che, con immemorabile incisività, si offre allo spettatore un’attanagliante senso di angoscia, che non ci mette molto ad assumere le forme di pena, per quella coppia così stonata dalla normalità, ma anche di paura, perché, sotto sotto, temiamo ( o sappiamo) di assomigliarle almeno un po’.
Lo spettacolo è di rara intensità; due prove attoriali non comuni; una storia dalle mille sfumature che fa riflettere. Ciò che ne consegue è un vero gioco al massacro, quello che Andrea Trapani e Aida Talliente eseguono con eccelsa bravura sotto lo sguardo attonito di un pubblico che, se a tratti ride di quei personaggi per esorcizzarne l’affinità che hanno con se stesso, immediatamente dopo china gli occhi per la vergogna. Alla fine non resta che la pesantezza di una verità non voluta, nata prematuramente, che, a luci spente e sipario calato, lascia tra i seduti in platea un’indifferenziata sensazione di sollievo e inquietudine, di sublime e terribile, che rimane incastrata in gola.
Giuditta Maselli
14 dicembre 2016