Recensione dello spettacolo L’indecenza e la forma (Pasolini nella stanza della tortura) in scena al Teatro Argentina il 13 febbraio 2017
“È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”
È con le parole insieme terribili e tenere della celeberrima Supplica a mia madre, proiettate su uno schermo posto su una specie di lugubre catafalco, che ci si imbatte ne L’indecenza e la forma (Pasolini nella stanza della tortura) appena entrati in sala: quella del Teatro Argentina è la prima nazionale di uno spettacolo definito melologo – la scrittura si fa musica e la musica si trasforma in grido di rabbia - firmato da Giuseppe Manfridi e diretto da Marco Carniti. L’obiettivo è compiere un viaggio nei gironi pasoliniani e indagarne il centro biografico: il rapporto familiare. Una indagine che chiama in causa anzitutto la madre, ma anche il padre e il compianto fratello, volendo dare all’intera vicenda umana e intellettuale di Pasolini – compresa la tragica morte - un taglio rituale e simbolico. Sul palco, a reggere l’immane peso di una così ambiziosa lettura, c’è la straordinaria Francesca Benedetti: a lei il compito di trasformare la monodia di una sola attrice nella polifonica apparizione di tutti gli spettri che agitarono l’esistenza dell’artista. A farle da simulacro c’è il corpo quasi esanime di Sebastian Gimelli Morosini, che si presta castamente a divenire di volta in volta figlio, fratello, vittima, oggetto del desiderio e di repulsione.
Lo spettacolo - prodotto dal Teatro di Roma e dal Teatro Nazionale - gioca però con il fuoco, bruciandosi le dita: è ciò che capita spesso, maneggiando il materiale di Pier Paolo Pasolini. Si evocano, infatti, il morboso rapporto con la madre, gli insanabili contrasti con un padre che aveva fatto persino da scorta a Mussolini, l’ombra desolante del fratello Guido, partigiano ucciso da partigiani, ma non si hanno gli strumenti per poterne maneggiare l’incandescenza: i riferimenti biografici, i cenni letterari, l’evocazione del disturbante Salò o le 120 giornate di Sodoma non possono bastare per rendere a sufficienza l’ambiguità dell’uomo Pasolini e la complessità della sua poetica. A Giuseppe Manfridi e a Marco Carniti va certamente riconosciuto il coraggio del portare in scena un’opera difficile, dove il non detto viene addirittura urlato: ciò che le manca, però, è la forza. La forza di un linguaggio testuale e fisico che possa davvero esprimere cosa avrebbe potuto dire o cosa avrebbe potuto pensare Pasolini invece di apparire come pallido barlume di imitazione, sebbene inteso come omaggio. Una forza che, invece, possiede l’interpretazione di Francesca Benedetti: instancabile nel pronunciare tutti i diversi accenti di cui queste spettrali voci necessitano per potersi manifestare, regala una performance di arcaica bellezza e di immenso valore. Una generosità assoluta, perfettamente espressa al momento degli applausi finali quando - travolta dall’emozione per il riconoscimento del pubblico - non chiede altro che di poter coinvolgere quanti hanno reso possibile L’indecenza e la forma (Pasolini nella stanza della tortura). Ignorando, probabilmente, che senza di lei non ci sarebbe stato nessuno spettacolo.
Cristian Pandolfino
14 febbraio 2017