Recensione dello spettacolo la Scala in scena al Teatro de’ Servi dal 21 febbraio al 12 marzo 2017
È una cena tra amici come tante quella organizzata da Mirko (Gabriele Carbotti) e Miriam (Marina Marchione) per festeggiare la ristrutturazione dell’appartamento al Nuovo Salario che hanno acquistato da poco e di cui sono tanto orgogliosi. Pochi intimi, loro, una coppia di amici da una vita, Terry (Samantha Fantauzzi) e Corrado (Fabrizio D’Alessio), e i due vicini di casa, Elvi (Barbara Clara) e Niccolò (Andrea Dianetti), un po’ sui generis, ma tutto sommato simpatici. E ovviamente lei, la scala, geniale escamotage architettato per entrare in casa senza passare dall’entrata principale e fare mille giri per il cortile interno e soprattutto protagonista indiscussa dell’intera vicenda.
Al centro dei discorsi durante il primo atto, seppure non in vista, acquista un ruolo primario dall’inizio del secondo in seguito alla caduta, anche di stile, che si consuma sui suoi gradini. Dopo un primo tempo di finte smancerie ed eccessive carinerie (al punto che ci si domanda quando finirà la pantomima), è con l’inizio del secondo atto che le cose cominciano a farsi interessanti. Cambio di scena e di prospettiva, con la scala, ora presente, al centro del palcoscenico, ma soprattutto cambio di ritmo e di linguaggio. Cambio faccia. Del resto come lo stesso Giuseppe Manfridi, autore della drammaturgia, afferma “la Scala mette a nudo ciò che in qualche parte di noi quasi tutti siamo. Doppi e tripli, anche se sinceri. E dunque, spesso, come in questo caso, tremendamente comici”.
Basta, infatti, uno scivolone a far cascare ogni maschera e a far venire a galla vecchi rancori, pensieri poco edificanti, gelosie e antipatie per troppo tempo taciute, rimettendo tutto in discussione: amicizie, amori, nuove e fruttuose conoscenze. Bastano un incidente imprevisto e forse un bicchiere di troppo a spianare la strada ad una serie di riflessioni sulla natura umana, sulla sincerità dei rapporti che si instaurano nel mentre, sui valori ai quali si sceglie di credere, insomma sulla vita, della quale la scala è metafora ideale.
Ed è proprio attorno a questo perno che ruota tutta la commedia, la cui regia porta la firma di Michele La Ginestra. Per evidenziare quanto sia sufficiente uno sciocco battibecco su un vecchio orologio da parete a far precipitare nel baratro della vergogna anche il più rispettato dei rispettabili. E la scala, da strategica e funzionale scorciatoia che era, si trasforma nell’espediente più rapido per fare luce su antichi retroscena e attuali risentimenti, togliersi qualche sassolino dalla scarpa (perché tanto più di questo cos’altro può succedere) e lasciarsi andare a piccole trasgressioni, come fumare una canna, nella speranza di fuggire, un’altra volta, si spera, dalla realtà.
Nel complesso lo spettacolo funziona, nonostante un inizio troppo lento e dei dialoghi, a tratti, impossibili da seguire. Scritto per essere particolarmente apprezzato dal pubblico romano, dato il frequente ricorso al romanesco, lo spettacolo riesce nell’intento di coinvolgere i presenti anche grazie al costante rimando a determinati quartieri e luoghi di Roma ben noti a chi vive la città. Ma è solo con l’inizio del secondo atto che l’azione si fa movimentata, la pièce recupera l’attenzione del pubblico e gli attori riescono a dare il meglio di sé. Fra tutti è Andrea Dianetti a strappare qualche applauso in più alla platea.
Concetta Prencipe
6 marzo 2017