Mercoledì, 27 Novembre 2024
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Entusiasmozero e Sogno d'autunno: Una due giorni a Torino, città di confronti.

Dal 3 al 4 marzo Entusiasmozero al Cubo Teatro – Dal 28 febbraio al 12 marzo Sogno d'autunno al Teatro Stabile

 

La bella e magica Torino, multietnica,  ricca di proposte, città di spazi misti, scene artistiche in fermento, rispettosa di una certa tradizione e aperta a stimoli. Una città in costante divenire, che ha difeso nel tempo la sua valida reputazione.

L'esperienza di due giorni in questo inizio mese ha permesso il confronto fra due spazi del panorama teatrale torinese. Fra il prestigioso Teatro Stabile, residente in quel gioiello che è il Teatro Carignano, e il Cubo teatro, ospite delle vivacissime Officine Corsare, sono andati in scena due spettacoli completamente distinti, ma degni di nota. 

 

Il Cubo Teatro, realtà esistente nel quartiere Vanchiglia, è uno spazio multidisciplinare affiancato dal circolo Arci Officine Corsare. Una garanzia per la scena off torinese, un ambiente informale e ben organizzato, dinamico e impegnato, che lascia percepire quanto investimento di energie ci sia dietro. Dal 3 al 4 marzo il teatro ha ospitato Entusiasmozero, di Fabio Marchisio. Un monologo dove l'attore Lorenzo Bartoli regge il palcoscenico grazie all'immedesimazione totale e alla mimica incoraggiante e coinvolgente. 

Su di un palco essenziale, Bartoli è Santo, piccolo criminale di provinicia riportato coi tratti caricaturali del mafioso temibile per azioni quanto buffo per atteggiamenti. Santo non è solo, lo spettacolo si muove infatti su un dialogo immaginato fra il piccolo criminale e Peppe, l' accompagnatore/autista. Un autista di cui non si intuisce nulla per tutto lo spettacolo, se non la sua giovane età e il suo essere taciturno. I due sono in viaggio, in automobile, rappresentata sulla scena da una piccola macchina giocattolo, quelle macchinine da collezione che viene ad essere punto focale dell'inizio e della fine dello spettacolo. Quella macchina è simbolo del viaggio e di tutto il simbolismo che si porta dietro, mutamento, trasformazione, presa di consapevolezza, quella a cui approderà uno dei due personaggi. Santo discorrre da solo in un climax ascendente e caricaturale, durante uno dei suoi giri in automobile per incontrare un qualche potente politico, Peppe, invece, invisibile e silenzioso sta al suo fianco. Nel suo monologo Bartoli si confronta con un personaggio inesistente sulla scena, riuscendo a pennellarlo con gli scambi di battute privi di risposte. Cuce una forma dell'invisibile, e noi Peppe riusciamo proprio a immaginarlo, nonostante il ritmo dello spettacolo è interamente scandito dal personaggio di Santo. È lui, infatti, che occupa la scena, si scalda, parla, ammicca, sorride di quel sorriso ruffiano e falso di chi crede che ogni mezzo serve per raggiungere un fine, va in escandescenza, urla e insieme si fa ragionevole dispensatore di consigli di vita. Uno spessore che il regista ha creato mettendo in luce le chiavi caratteriali e psicologiche del personaggio. Lo spettatore è conquistato da tanti mutamenti utili all'equilibrio dello spettacolo, fino ad arrivare alla conclusione che svela il messaggio interno fino ad ora solo percepito. Lo spettacolo si risolve con un riscatto, il silenzio del giovane autista diventa improvvisamente segnale d'altro, lo spettatore lo comprende e una voce fuori scena ne chiarisce tutto il significato. Un risentimento covato da tempo, una repulsione per quel mondo corrotto, un desiderio di vendetta che si manifesterà con uno schianto, anche questo simbolico, come il viaggio. Lo schianto è rottura, distacco, impatto e scontro con la consapevolezza, estremo gesto di liberazione.

Uno stampo civile che ironizza su certi personaggi mafiosi e riporta un sentimento di rivalsa assolutamente giusto, espresso in un discorso finale, forse, leggermente ingenuo, comunque coerente ed efficace. Uno spettacolo da suggerire e far girare maggiormente nei circuiti scolastici, funzionando già nella sua forma di studio. Allungarlo, infatti, richiederà dedizione e premura di dettagli per far restare il monologo ad un livello alto per coinvolgimento. Restiamo comunque curiosi di capire come potrà amplificarsi. Essendo già quasi completo come corto, vogliamo ben capire di quali elementi verrà arricchito. Una sfida che il regista vuole tentare e noi, allora, restiamo in attesa. 

Altro contesto, altra scena, altro teatro. Dall'attivissimo clima del Cubo Teatro, passiamo alla stagione del Teatro Stabile. Un teatro che vanta una lunga storia, pietra miliare della cultura torinese, punto di riferimento per teatranti e lavoratori dello spettacolo, con diverse sedi fra le quali il prestigioso Teatro Carignano, gioiello d'epoca. 

In scena, lo scorso fine settimana e ancora per qualche giorno, Sogno d'autunno di Jon Fosse, noto drammaturgo norvegese, i cui testi si collocano fra i piani alti del panorama teatrale. Un autore a cui solo un  un regista del calibro di Binasco poteva relazionarsi. Una scrittura difficile quella di Fosse, dicono, ed effettivamente è davvero una scrittura difficile da inscenare, perchè capace di forti sensazioni che una messa in scena banale potrebbe sminuire e non rendere nella sua completezza. Fosse crea dimensioni sospese, si sofferma sul dettaglio delle energie sottili e decisive che si muovono nella vita di ognuno, la sorte ha una potenza che non si può ostacolare, ne percepiamo la forza che travolge ogni cosa. I personaggi si muovono, vivono e creano situazioni, ma sono a loro volta mossi da una trama di fondo, una trama che va oltre la trama. Difficile da raccontare anche per questo. La stessa storia di Sogno d'autunno ha una sua trama che, appunto, va oltre. Ciò che la compone non è solo la storia e ciò che rappresenta, ma ciò che vi sta dentro la storia e ciò che vi sta fuori, cioè una rete emozionale che Binasco riesce a catturare.

La scena stessa si apre con la rappresentazione di un luogo che è complesso emozionale totalizzante, nulla riesce a convogliare quiete, attesa, paura, tensione, riflessione e turbamento come un cimitero. Nella perturbante atmosfera le dinamiche dell'incontro sono il principio base del movimento. Un uomo, sposato con figli, incontra una donna, già parte del suo passato, elementi fluttuanti di narrazione ci lasciano intuire momenti vissuti e riempiono i non detti.

Altri personaggi seguiranno,la madre di lui, il padre, l'ex moglie che capitola sulla scena. 

Binasco, in questo microuniverso popolato, ricrea un un contesto non statico, fra sedie che fanno da lapidi, fiori e fotografie e la parete del cimitero che lascia spazio, ruotando, all'interno di una casa. Una cucina, luogo familiare di ritrovo, luogo del passato, di quei rapporti sfilacciati e tenuti insieme da incomprensioni e fili sottili d'affetto. Il tempo, le visite a casa, le nostalgie, i piccoli drammi familiari che smuovono il tessuto psicologico di ognuno, le frustrazioni che ne emergono, le personalità e i desideri. Il vuoto e il suo riempimento. In un'intervista di Andrea Porcheddu, Binasco ci permette di comprendere appieno: "Per Fosse, l'uomo non abita lo spazio, ma il tempo, nella convivenza non sempre felice fra fantasmi, esseri viventi, ricordi e una malinconia struggente che assomiglia molto alla pietà per l'atto di vivere"

La storia di un uomo, dunque, delle sue passioni e dei suoi rapporti familiari, una vita che racchiude i vari scompensi d'animo di ognuno qui espressi nella loro tragicità. Un uomo che è uomo in tutta la sua fragilità, una fragilità estesa che si risolve nella non capacità di fronteggiare la propria sorte. Fra echi interni che riportano all'amore così come alla morte, forze sotterranee vengono riprese, i personaggi le esplorano internamente e riportano sapientemente sulla scena. Tutto appare, nello spettacolo, molto studiato, dall'investimento e impegno scenico alla recitazione che desta a primo impatto uno stranimento non codificabile appieno. È bravura di immedesimazione  nei tipi che dipinge Fosse o è eccesso nell' esercizio dell'immedesimazione che restituisce poi un qualcosa di finto? Una prima impressione appunto, che viene spazzata via dal coinvolgimento dell'intreccio che anima l'interesse e evidenzia le capacità attoriali. Restano impresse le voci impostate nella circoscrizione del personaggio e i volti su cui sono cuciti i lasciti di passato e presente intrecciati, consapevolezze interne come il sapere che ciò che amiamo ci fa anche male, che nulla ci completa davvero, che le vite sono spesso spezzate, così come la magnifica scena in cui il protagonista su di una panchina viene letteralmente tirato da un braccio e da un altro dall'ex moglie e dalla compagna. Luci e espressione inerme mostrano un uomo sopraffatto, dallo sguardo vuoto a cui non resta nient'altro che la sua incapacità di reagire di fronte alla scissione degli eventi. Ci si consuma nel tempo, nell'evocazione degli attimi passati e nelle prospettive future. Una tensione drammatica che pare senza uscita e lascia brividi nella platea che accoglie con un caloroso applauso il nuovo successo firmato da Binasco.

 

Erika Cofone

10 marzo 2017

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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