Convince la direzione del Maestro Calesso ed incanta il Germont di Roberto Frontali.
‘La Traviata’ è titolo rappresentato moltissime volte a Trieste negli ultimi anni.
Questo è l’ottavo allestimento nel secondo millennio.
Con fortune alterne, vocalmente e scenicamente, ma sempre con entusiasmanti riscontri al botteghino, a riprova di quanto il pubblico triestino ami il capolavoro di Verdi.
Vogliamo fare una premessa di cui siamo profondamente convinti: questa partitura è vittima della sua stessa popolarità, che la condanna ad una visione più romantica che sperimentale, più palesemente drammatica che raffinatamente poetica. Soffre della banalizzazione di tutti i brindisi cantati da chiunque, con tempi balordi, infarciti di da capo inventati, acuti inseriti a caso e partecipazioni di voci impreviste ed imprevedibili.
Invece questo è titolo raffinato, intenso, cesellato in ogni passaggio, studiato in tutte le parole.
Verdi ha pianto ogni nota della partitura, nelle pause ha raccontato la sua vedovanza, nei passaggi senza orchestra il suo senso di solitudine, ha condiviso prima la voglia di abbandonare una vita nella quale non riusciva a ritrovarsi e poi il turbinio degli ‘anni di galera’ che anestetizzarono a colpi di ‘prime’ e di ‘adattamenti’ uno strazio che gli graffiò sempre l’animo.
Ha intinto la penna nel dolore, nelle speranze strappate. Ha offerto al mondo il sacrificio di andare avanti, ha votato la sua vita definitivamente all’Arte, che era anche il suo modo di rendere immortale Margherita, la giovane sposa morta poco dopo i due figli.
Studiando con attenzione i bozzetti della prima, commissionato da Verdi a Giuseppe e Pietro Bertoja, suoi scenografi di fiducia e per certi versi autentici alter ego, capiamo che quello che il compositore cercava era una atmosfera disincantata, giocata su tensioni cromatiche, sonore e visive, con accostamenti, ci riferiamo in questo caso alla sala di Flora, palesemente dissonanti, in un inseguirsi di gialli taglienti, verdi aspri, con qualche tocco di rosso a ferire i decori volutamente esagerati, tratteggiando il cinismo di un mondo di apparenze e di finzioni ed in questa maniera sublimando il sacrificio di Violetta.
Il fatto che il tempo abbia sbiadito le tinte dei bozzetti e la cattiva abitudine di scrivere utilizzando le fotografie invece che consultando gli originali, ha fatto pensare a troppi studiosi frettolosi che il mondo di Violetta fosse un rincorrersi di ori e tinte garbate, che la musica cercasse virtuosismi ed abbellimenti un po’ di maniera.
Invece nulla nel lavoro del musicista di Busseto è scontato, niente è prevedibile .
Lo capiamo anche dal racconto della prima fatto da Bertoja, che era seduto accanto a Verdi e ne condivise sconcerto e sofferenza.
Il compositore si era inutilmente battuto per avere a disposizione, più che virtuosi del belcanto, interpreti credibili e non a caso attribuì una buona parte della causa dell’insuccesso, proprio alla poca aderenza fisica ai ruoli dei cantanti chiamati ad assolvere le parti. Una visione modernissima, dunque, dello spettacolo, coraggiosa e fortemente attuale.
Stuoli di esperti musicali si soffermano a soppesare la purezza delle note, dissentire sulle sbavature, misurare fiati e vertigini vocali.
Abitudine comprensibile e persino divertente, ma certamente lontana dal pensiero autenticamente verdiano, che non puntava alle acrobazie astrali, quanto piuttosto alla autenticità della narrazione emozionale.
Il teatro Verdi, continuando il meritorio percorso di apertura alle voci più interessanti della scena non solo nazionale , ha deciso di affidare il titolo inaugurale al famoso regista Arnaud Bernard, reduce dal successo della recentissima triade di Manon a Torino , che ha confezionato uno spettacolo piuttosto lontano dalla premesse che abbiamo tracciato
La vicenda viene spostata negli anni Cinquanta.
Qualcuno ha pensato, ci viene da dire generosamente, che l’idea fosse di celebrare la riunificazione di Trieste all’Italia.
La piacevole immagine del manifesto, fa pensare alla Callas vestita da Biki.
Altri si aspettavano dei rimandi alle atmosfere patinate del cinema di quegli anni.
Ma queste ipotesi perdono di consistenza all’aprirsi del sipario.
Certamente lo spettacolo è abbastanza gradevole visivamente ed il pubblico pare apprezzare.
Ma che lo spostamento serva a realmente a rileggere la vicenda, è tutto da discutere.
Non c’è il coraggio di un cambio radicale, con una Violetta scavata nelle emozioni e profonda nei gesti.
Non abbiamo la citazione delle grandi lotte femministe, per le quali la protagonista avrebbe potuto essere un modello prezioso.
Si è parlato di ricostruzione post bellica, ma nulla qui viene costruito e la guerra fra la Valery ed il perbenismo è in pieno corso e si concluderà con la sconfitta del sogno d’amore della fanciulla.
Insomma, se è chiaro l’intento estetico, che poi si è risolto in una chaise longe griffata e poco più, le ragioni drammaturgiche sono oscure, come la struttura fissa che ammanta di nero la scena, firmata da Alessandro Camera.
Senza autentiche motivazioni narrative, cadono in gran parte, a nostro parere, le ragioni per lo spostamento.
Certamente l’allestimento è un voluto turbinio di citazioni. Tanto per ricordare le più evidenti, ci sono gli specchi, che ricordano il celebre allestimento di Svoboda; le foglie tanto care a Carsen; una incombente bicromia che rimanda alla Traviata di Benoit Jacquot per il Met ma anche a quella nostrana del troppo poco ricordato Federico Esposito.
In definitiva un ricco lavoro di metateatro, certamente dotto, ma non sappiamo quanto efficace.
Non mancano, comunque gli scivoli: Violetta scatarra, o forse vomita, continuamente, dalla prima all’ultima scena, tanto da spostarsi con una bacinella. Durante lo spettacolo ci sono almeno cinque amplessi di cui non si sente nessun bisogno soprattutto per la brutalità che li caratterizza. Le zingarelle sono diventate un gruppo di sgraziate drag queen mentre nel corso della festa esce da un gigantesco cilindro una sorta di Josephine Baker che vive un momento lesbo con Flora, peraltro gioiosamente ubriaca e entusiasticamente dotata di frustino sado-maso. Una ballerina allarga le gambe, stupendo uno degli invitati che fugge sgomento, supponiamo per la inaspettata sorpresa.
Violetta monta sul tavolo e canta, si distende sul desco, distrugge bicchieri e trascina tovaglie.
Alfredo, a sua volta, sale sul tavolo da gioco, zampetta su quello da pranzo, addirittura vi concupisce l’amata.
Ancora meno comprensibile perché le persone, quando dovrebbero parlare fra di loro, raramente si guardino; perché Violetta si lamenti ripetutamente del suo pallore senza specchiarsi da nessuna parte, neanche sul pavimento riflettente sul quale è distesa e soprattutto perché gran parte delle arie siano cantate posizionando gli interpreti ai lati della scena, rendendo complessa la visione da metà dei palchi e lasciando vuoto il palcoscenico.
Al contempo il duetto dei Germont, padre severo e figlio a terra, in posizione fetale, con un telo nero che li isola dal mondo e rende l’atmosfera preziosamente metafisica, è un momento di altissimo teatro, come d’effetto sono certe visioni d’insieme dai toni quasi caravaggeschi.
Perché certamente, al di là dell’apprezzamento o meno per questo allestimento, Arnaud è uomo di teatro intelligente e sensibile.
I costumi di Carla Ricotti sono molto piacevoli alla vista, ma in definitiva solo grazie alle gonne alla caviglia di Violetta ed Annina capiamo di essere negli anni Cinquanta.
Le luci firmate da Emanuele Agliati regalano attimi di suggestione, soprattutto negli impegnativi pezzi di insieme nei quali i coristi , diretti dal Maestro Paolo Longo, sono chiamati ad alternare assoluta immobilità ad una concitazione forzata, persino eccessiva, che potrebbe essere il motivo di alcuni momenti di ritardo e di disomogeneità, soprattutto delle voci maschili, che comunque non penalizzano l’ampio consenso del pubblico.
Certamente il motivo di maggior interesse di questo allestimento è stata la lettura che il Maestro Enrico Calesso, direttore musicale stabile del teatro Verdi da qualche anno, ha dato della partitura.
Calesso è intellettuale attento e raffinato, musicista sensibile e preparato e che ha una lunga frequentazione di questo melodramma.
Riesce ad esaltare come pochi altri le potenzialità dell’Orchestra del Verdi, che sotto la sua bacchetta fornisce prove luminosissime, esaltando la maestria dei singoli, che riesce a valorizzare con sensibilità.
Il lavoro compiuto sulla partitura è stato profondo, mai scontato, ed ha condotto ad una pulitura da stereotipi e luoghi comuni, da maniere e manierismi ed ha esaltato l’essenzialità di una poetica narrativa che Verdi ha descritto in modo insuperabile.
I tempi, soprattutto nella replica pomeridiana di sabato, sono apparsi piuttosto dilatati, la visione non usuale , ma già dalle prime note si coglie una resa preziosa, che esalta la bravura in particolare della sezione degli archi, dominata dal primo violino Stefano Furini , da molti anni uno dei punti di forza dell’organico..
La direzione rapisce ed alla fine ogni filo della trama, anche quelli che sembravano essere sfuggiti di mano, si riannodano nell’intenso ultimo atto, fortissimo, scavato nei sentimenti di pubblico e personaggi, nudo nell’essenza del racconto, che dà anche un senso a quello specchio sul pavimento, nel quale più che gli interpreti sembra specchiarsi il teatro.
Il Maestro accompagna con bravura e gesto elegantissimo i cantanti, li sostiene, riesce ad esaltare le loro potenzialità e fa scivolare via le sbavature, riuscendo quasi a celarle.
In questo recupera quella grande vecchia scuola dei direttori che avevano come fine la riuscita dello spettacolo, non l’esibizione narcisistica che troppo spesso abita i podi e consegna delle recite che il pubblico applaude quasi a comando.
Nel corso delle repliche si sono alternati, nei ruoli principali, due compagnie , la cui resa è fin troppo differente, a tutto favore del primo gruppo di interpreti.
Questa discrepanza così marcata dovrebbe essere motivo di una riflessione profonda da parte della direzione artistica del teatro, per evitare quelle penalizzazione di parte degli spettatori che già si erano abbattute sulle stagioni di qualche anno fa e che tanto malcontento avevano generato soprattutto fra gli abbonati, ai quali oltretutto non sono neanche stati comunicati tutti i cast.
Violetta aveva le voci di Maria Grazia Schiavo e Francesca Sassu.
Per entrambe vale la sensazione che un maggior lavoro registico sul personaggio avrebbe giovato alla resa, evitato gesti stereotipati e forzature, ma certo non è colpa loro imputabile.
La Schiavo è cantante dalla carriera prestigiosa, che offre una prova di spessore, soprattutto nei primi due atti, nei quali supera le asperità delle agilità senza difficoltà. L’atto conclusivo è cantato con correttezza e misura, ma è quello in cui si rimpiange di più la mancanza di una voce dal peso più corposo.
La Sassu ha una voce dai colori drammatici, che nei primi due atti non sempre emerge per potenza ed agilità, ma che nell’ultimo regala dei momenti di forte suggestione, grazie anche ad una abile resa scenica.
La parte di Alfredo era sostenuta da Antonio Poli e Klodjan Kacani.
Poli è presenza ricorrente delle ultime stagioni triestine. Lo ricordiamo esuberante Duca di Mantova ed intenso Macduff . Le sue recenti scelte di repertorio sembrano portarlo verso una vocalità corposa, potente, dai colori quasi da baritenore. Se prima di ascoltarlo eravamo un po’ sorpresi di ritrovarlo in un ruolo come questo, nel corso della recita cui abbiamo assistito siamo rimasti impressionati dalla capacità di cesellare, vocalmente e scenicamente un Alfredo di grande valore. Irruente, caparbio, ma anche delicato, a tratti riservato, regala momenti di trasporto ed emozione
Vocalmente spavaldo, sicuro negli acuti e dotato di fiati lunghissimi, piega la voce dal bel colore maschio in delicate mezzevoci, suggestivi passaggi ed individua le giuste sfumature per ogni momento. Inizia che è un ragazzo un po’ guascone a caccia di gonnelle, finisce che è un giovane uomo che ha scoperto l’amore, il dolore, il valore dell’essere adulto, di diventare realmente responsabile e lo racconta con misura ed eleganza, grazie ad una tecnica sempre più solida ed una voce che con il passare degli anni acquisisce aspetti sempre più interessanti.
Certo vederlo guardare il vuoto mentre intona ‘un dì, felice eterea’ e notare che Violetta nel mentre fissa la parete, non aiuta a cogliere la poesia del momento e certamente rende ancora più complessa l’immedesimazione per i cantanti, ma entrambi gli interpreti hanno saputo commuovere ugualmente e raccogliere un ampio e giusto consenso dal pubblico.
Kacani è un giovane tenore, ha una voce con piacevoli colori ma che, forse per la tensione del debutto, in qualche momento controlla a fatica . Il suo Alfredo, complessivamente ancora approssimativo, con un approfondimento maggiore potrebbe diventare interessante.
Roberto Frontali ha raccolto i primi successi della sua fortunata carriera proprio al Verdi. Lo ricordiamo nel 1988 in un ‘Faust’ cupo ed in una sfavillate ‘Vedova Allegra’ accanto a Serra e Mazzuccato.
Dopo trentasei anni incanta con un Germont da antologia, che il pubblico saluta con un trionfo di consensi.
Difficile pensare ad una interpretazione più attenta e profonda. Il Baritono cesella ogni parola, soppesa le frasi ingemmandole di sfumature che sembrano realmente uscire da un cuore addolorato. Pare cercare le migliori espressioni per non ferire Violetta, ma al tempo stesso per convincerla in fretta, perché lui stesso sa che quello che sta compiendo è un delitto e non vede l’ora di andare via.
Vocalmente il suo strumento è solidissimo, gli acuti svettano sicuri e limpidi, i fiati sono oceanici.
Una lezione di grande canto, una dimostrazione di autentica Arte, come sempre più raramente succede di ascoltare. Un plauso al teatro che ha riportato a Trieste un Maestro vero.
Federico Longhi offre un Germont vocalmente opulento, brutale nei modi, spiccio, scevro da finezze e tutto sommato monolitico, che sembra, forse volutamente, cozzare con la raffinata trama musicale costruita da Calesso. Non chiede a Violetta: pretende. Non cerca di convincerla: da subito la costringe. Interessante se si vuole fare del vecchio genitore un prototipo del machismo violento, ma questa scelta impedisce una tavolozza di sfumature che sarebbe stato importante ascoltare
Nella parti secondarie, su tutte brilla la Annina di Veronica Prando.
Molto valida la costruzione scenica del personaggio, dal punto di vista vocale la Prando ha mostrato una voce dal timbro luminoso, sicura nella tecnica e, nonostante le poche battute, di grande personalità.
Efficaci tutti gli altri. Eleonora Vacchi era una Flora sontuosa negli abiti e sinuosa nei movimenti; Francesco Verna un piacevole Barone Douphol; il Marchese d'Obigny era l’appropriato Francesco Auriemma; Andrea Pellegrini, imponente in scena e corposo vocalmente era il Dottor Grenvil; Saverio Fiore era un esuberante Gastone. Appropriati e scenicamente credibili Gianluca Sorrentino come Giuseppe, il domestico di Giuseppe Oliveri e Damiano Locatelli, nella parte di un commissario.
Alla fine di entrambe le repliche, gremite in ogni ordine di posti, applausi copiosi per tutti, con autentiche ovazioni per la prima compagnia ed il direttore.
Gianluca Macovez
13 novembre 2024
informazioni
Trieste, Teatro Giuseppe Verdi, stagione d’opera e balletto 2024-25
“La Traviata”
di Giuseppe Verdi
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Regia ARNAUD BERNARD
Scene ALESSANDRO CAMERA
Costumi CARLA RICOTTI
Light designer EMANUELE AGLIATI
Maestro del Coro PAOLO LONGO
Personaggi e interpreti
Violetta Valéry MARIA GRAZIA SCHIAVO(8, 10, 15, 17/XI)/ FRANCESCA SASSU(9, 16/XI)
Alfredo Germont ANTONIO POLI(8, 10, 15, 17/XI)/KLODJAN KAÇANI(9, 16/XI)
Giorgio Germont ROBERTO FRONTALI(8, 10, 15, 17/XI)/ FEDERICO LONGHI(9, 16/XI)
Flora Bervoix ELEONORA VACCHI
Barone Douphol FRANCESCO VERNA
Marchese d'Obigny FRANCESCO AURIEMMA
Dottor Grenvil ANDREA PELLEGRINI
Gastone SAVERIO FIORE
Annina VERONICA PRANDO
Giuseppe GIANLUCA SORRENTINO
Un domestico di Flora GIUSEPPE OLIVERI
Un commissionario DAMIANO LOCATELLI
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 9 e 10 novembre 2024