Recensione dello spettacolo l’Origine del mondo: ritratto di un interno in scena al Teatro Argentina di Roma dal 22 al 28 marzo 2024
“Ma ridi. Ridi! Sei tanto bella quando ridi.” Lucia (Mascino), entra in scena al secondo atto, vorticosamente. È una madre, e una nonna, che cerca maldestramente e senza riuscirci di spronare una figlia, Concita, risucchiata nel buco nero dell’apatia: “É successo di nuovo”. “Devo ricominciare da capo”. Così Concita (De Gregorio), con un timbro di voce inconfondibile, come inserita in un quadro, una scenografia impeccabile dallo sfondo blu notte, che rende vischiosa persino nel pubblico in sala la percezione di uno stato di disagio, apre la prima scena di un racconto complesso e complicato, colmo di rimandi letterari e filosofici, che indaga la natura umana e la sua solitudine, le sue fragilità, nella moltitudine dei rapporti interpersonali.
Concita De Gregorio, Lucia Mascino e Alice Redini, che interpretano nell’ordine, ognuna perfettamente calata nel proprio personaggio, la madre, la nonna e la figlia/psicoterapeuta, sono le protagoniste di uno spettacolo integralmente al femminile, denso, profondo e leggero al tempo stesso, scritto e diretto in tre atti da Lucia Calamaro, alla sua seconda edizione dell’Origine del Mondo: ritratto di un interno, presentato al Teatro Argentina di Roma dal 22 al 28 marzo.
Origine del Mondo è un’istantanea sulla società contemporanea, costellata da problematiche sociali e relazionali sempre più gravi e compromesse. Un’indagine sulla solitudine, sul dolore e la sofferenza, sull’incapacità di rapportarsi con l’altro da sé e la necessità spasmodica della ricerca dell’isolamento e del distacco; sul rapporto ambivalente, a volte simbiotico e a volte conflittuale tra genitori e figli; sui disturbi alimentari e sulle manie, e infine sulla depressione, “la malattia del secolo”.
L’intento della regista è quello di rappresentare con un taglio “cabarettistico” e accessibile, ma senza mai banalizzarlo e proponendo infine una catarsi evangelica, uno spaccato familiare difficile, nel quale chiunque può tuttavia riconoscersi, compromesso dalla ricaduta di una donna, Concita, madre di una ragazza adolescente adultizzata (Alice) e figlia, a sua volta, di una figura materna ingombrante (Lucia), in uno stato depressivo che la immobilizza all’interno delle mura di casa.
Prigioniera di sé stessa, reclusa nella compagnia solitaria e rassicurante delle sue manie, il perimetro di casa diventa scudo e riparo, una tana di chiaroscuri che la protegge e, al tempo stesso, la fagocita in un immobilismo spazio-temporale. Senza dover mai uscire di casa, Concita è libera di esprimere la sua tristezza al di là dell’imposizione di qualsivoglia convenienza sociale, ipocrita e meschina, vorace e distratta. Il mondo esterno spaventa, la “società dei giusti” è un mondo frugale e privo di qualità; un mondo atonale in cui tutto scompare senza dolore, senza strazio. “Io oggi non ce la faccio. Voglio stare in una natura morta. Ma non in una qualsiasi. In quella di un quadro di Morandi”, farnetica Concita distrattamente, inghiottita tra i ripiani gelidi di un frigorifero semiaperto, suo interlocutore primario e confidente, sempre pieno di niente di utile. Illuminata dal fascio di luce artificiale, che esce fredda dagli scomparti di Sangiorgio e brandisce finanche l’oscurità plumbea della sala, sola nell’immensità di una stanza buia dalle quinte altissime, sillaba una verità drammaticamente incontrovertibile: “io non esisto più”. Nella sua solitudine apparentemente calda e avvolgente, in verità preoccupante, immersa tra i pensieri e il fumo di una sigaretta sempre accesa (altro escamotage registico che, sollecitando l’olfatto, rompe il divario tra palco e sala, inglobando lo spettatore in una realtà che è anche sua), una silhouette in penombra capitombola con un tonfo a terra. È Alice, la figlia, che inciampa nella quotidianità piatta della madre, a cui rivolge amorevolmente e con una maturità prematura le sue cure e i suoi accudimenti e dalla quale, d’altra parte, cerca e pretende in maniera capricciosa, come qualsiasi figlio, attenzioni tuttavia non corrisposte: “Non mi hai vista?” “Certo che ti ho vista, Alice. Non sei mica invisibile. Stai un po' dritta con quelle spalle. Cosa vuoi Alice? Ho un po' di tosse, sono stanca e sono totalmente fuori orario madre. Esci dalla mia visuale.”
Così scivola via il tempo, scorrono intere giornate e notti, tutto il primo atto, che si confondono e si sovrappongono, consumando Vita e vitalità.
“Devi reagire” “Sei lì come un lampione. Guarda avanti, non per terra. I guai ce li hanno tutti. Ma chi vuoi che ti si avvicini? Del tuo dolore alla gente non gliene importa niente”.
Lucia, la madre di Concita, irrompe così, all’inizio del secondo atto, sul palcoscenico, ancora una volta all’interno delle mura domestiche, una casa con le sue luci e le sue ombre, come un’ospite indesiderata che si auto invita, straziando l’atarassia immobile e fittizia della figlia e portando scompiglio nella quotidianità apatica di Concita, precipitata negli abissi di un’insondabile depressione, e di sua nipote Alice, succube inconsapevole di un interno familiare viziato e deviato, ma anche personaggio chiave in grado di stimolare un risvolto positivo alla narrazione e nella vita stessa di Concita. Con un megafono tra le mani, avanzando verso la platea con fermezza e autorevolezza, Lucia sputa freneticamente saliva e sentenze che riecheggiano metalliche come l’amarezza beffarda di un amore impotente: “Non mi fai più pena, Concita. Sempre chiusa in camera. Non mi hai mai dato soddisfazioni. Sei una sfollata della vita. Pure tu Alice, mi dispiace, ti vedo rovinata.” “Tu ti devi svegliare! Con quella faccia da catrame. Ma ridi. Ridi!”
“Ma quando uno sta male serve qualcuno che ti prenda la mano, non che sminuisca”. “Tu mamma” continua, bofonchiando, Concita” non capisci niente”.
Ancora una volta è il rapporto genitore figlio ad essere al centro del racconto, sollevando grazie a una trasposizione scenica impeccabile, il dramma della costellazione di conflitti psichici, opposti alla coscienza: “viviamo in eco involontaria e nel silenzio dei nomi che ci seguiranno”.
“Che cos’è la depressione, dottoressa?”, interroga la paziente. “Grazie per la domanda, Concita”, balbetta, con occhi spalancati, un’incredibile Alice Redini, nei panni della psicoterapeuta, sfumando in un silenzio eloquente e colpevole l’impossibilità di trovare una definizione. Eppure, la soluzione non è nella ricerca di una risposta ma nell’individuazione di una cura. Con un salto non troppo pindarico, la Redini cambia le vesti e torna figlia, offrendo infine una via di fuga, straziante nella sua innocenza e semplicità: “Che cos’è la cosa più brutta del mondo, mamma?” “Il dolore dell’umanità, le morti, la povertà estrema, i lutti. La solitudine”. “Allora io ti faccio una macchina che va a pescare una persona che non sta facendo nulla, che te la prende e che te la porta vicino”.
Ecco la risposta, la chiave di volta che Lucia Calamaro propone per ribaltare la narrazione in una sorta di resurrezione socratica: l’amore che contrasta l’indifferenza, una mano che si tende disinteressata, due braccia che si proiettano in un abbraccio: “Ma che mistero è la bontà?” “Non è un mistero, Concita, è un lavoro”. Ma per avere margine per gli altri, bisogna stare bene.”
Dal momento in cui si spengono le luci in sala e ha inizio la prima scena, sino ai meritatissimi applausi finali, lo spettatore fluttua come di fronte a un’opera d’arte che incuriosisce, catalizza l’attenzione, emoziona. Lo straordinario lavoro di regia e di riscrittura del testo, l’intensità dei dialoghi e la cura minuziosa dei dettagli, la scenografia che immortala le scene come scatti di realtà impressi su una macchina fotografica, un’illuminazione studiata e accurata che, caratterizzando ognuno dei tre atti, sottolinea attraverso la mutazione delle gradazioni cromatiche l’evoluzione del processo intimo di Concita, i costumi e infine la firma di tre attrici strutturate e autentiche, che generosamente e con divertimento si offrono al pubblico in platea, accompagnano lo spettatore attraverso lo stesso percorso catartico dei personaggi, in una trasformazione graduale e di redenzione, quasi di resurrezione, che è possibile, nonostante tutto, grazie all’unico ingrediente in grado di originare il mondo: “cosa servirebbe per trovare colore? “L’Amore” “Per chi? “Per i figli. Del resto, avere dei figli non è l’unico accesso all’immortalità?
Francesca Sposaro
4 aprile 2024
informazioni
ORIGINE DEL MONDO: RACCONTO DI UN INTERNO
Di LUCIA CALAMARO
regia LUCIA CALAMARO
scene e costumi LUCIA CALAMARO
aiuto regia JACOPO PANIZZA
disegno luci LUCIA CALAMARO
costumi Sartoria Bàste srl
foto di CLAUDIA PAJEWSKI
durata
1° atto 50 minuti
2° atto 40 minuti
3° atto 35 minuti
produzione Teatro di Roma – Tatro Nazionale