Recensione dello spettacolo Chef in scena il 16 e 17 novembre al Teatro Belli all’interno della rassegna Trend
L’inconfondibile impronta della regia di Serena Sinigaglia è immediatamente riconoscibile già agli esordi dello spettacolo: all’interno di una struttura in plexiglass dalle fattezze di una scultura di arte contemporanea, si muove la protagonista, Chef, senza mai varcarne i bordi, intrappolata nel suo interno. L’acqua sarà l’altro elemento fisso in scena: acqua a terra, acqua versata da un secchio, acqua che scorre sul plexiglass irregolare, spezzato, rendendo la visione suggestiva, evocativa di una dimensione altra. Per tutto il tempo del monologo, la protagonista maneggerà un secchio e uno straccio per pulire il pavimento all’interno dei ristretti confini della scenografia. Chef (così viene chiamata per tutto il tempo dello spettacolo diventando il suo nome proprio) nel contempo racconta frammenti della sua storia che riemergono dal passato senza un ordine cronologico. Lo spettatore, infatti, in alcuni frangenti, è disorientato da una narrazione non organica e solo durante la seconda parte dello spettacolo riannoda le fila degli eventi. Quello di Chef non è un vissuto qualunque.
La suggestiva struttura che la contiene si presta, di volta in volta, a situazioni differenti: è la cucina di un noto ristorante in cui lavora, è la cucina di un carcere femminile, è l’aula di un tribunale. Non ci viene rivelato se sia realmente responsabile della morte del padre o se abbia favorito quella di Candice, la sua assistente-chef nella cucina del carcere; si contrappone la sua voce interiore con quella del mondo esterno che la condanna. Le ragioni del personaggio e quelle del tribunale, ossia della società sono in conflitto: sembra insinuarsi tra le due posizioni, una terza strada imprevista, che agisce nell’inconsapevolezza, che non agisce per far del male, ma probabilmente per aiutare il padre e Candice a realizzare il loro desiderio di non continuare a vivere. La complessità della psiche umana non può essere asetticamente racchiusa in categorie predefinite come quelle di innocente/colpevole, giusto/sbagliato, bene/male e ce lo dimostra il vissuto di Chef.
La drammaturgia è incentrata su un monologo interiore in cui la protagonista rivisita momenti e aspetti della sua storia che hanno inciso profondamente sulla sua emotività. Una relazione conflittuale con un padre violento, una famiglia rinnegata perché non ha saputo prendersi cura di lei, una vita sentimentale tormentata, hanno reso Chef quell’esplosivo miscuglio di rabbia ed emozioni forti che l’hanno portata nel punto in cui la trova il pubblico. Sul finale la scrittura diventa coinvolgente e pregnante, dopo un avvio poco convincente. L’interpretazione di Viola Marietti è in linea col suo personaggio, riesce a trasmettere il tormento, l’agitazione, l’irrequietezza di Chef e a urlarne l’angoscia interiore nei passaggi fondamentali della pièce. Appare un animale in gabbia che si rivolta nel limitato spazio a disposizione dal significato simbolico: una prigione materiale in cui è finita e un carcere interiore costituito dalla famiglia, dalla società, dal proprio destino, a cui sembra non poter sfuggire. Il sigillo dell’elegante e originale regia di Serena Sinigaglia è ravvisabile chiaramente in alcune scelte da considerare tocchi di stile, come nel caso del progressivo denudarsi dell’attrice fino al nudo integrale sul finale. Le componenti del vestiario vengono eleminate parallelamente all’evoluzione della drammaturgia, coincidendo con i frammenti di vissuto che emergono e sono, di volta in volta eliminati dal flusso della narrazione, fino a giungere ad una condizione di liberazione finale, totale.
Mena Zarrelli
19 novembre 2021