Recensione dello spettacolo “Era un fantasma” di Arianna Mattioli, in scena al Teatro Comunale di Todi il 3 Settembre 2020, ha inaugurato il “Todi Festival 2020”
Come quando si entra in una stanza che si pensava vuota e s’inciampa in una conversazione tra altre persone. Vorremmo andare via in punta di piedi, ma sentiamo che in quelle parole che percepiamo c’è qualcosa che ci riguarda: lo capiamo dall’intonazione delle stesse, ancor prima che dal contenuto. Sono frammenti relazionali familiari che abbiamo vissuto anche noi: è facile ed immediato riconoscerci in essi. Il pubblico del Teatro Comunale di Todi viene così sorpreso all’interno di un appartamento di una famiglia tradizionale di fine anni ‘70 ad assistere, quasi involontariamente, ad una conversazione già iniziata, chissà da quando, tra un padre ed uno dei suoi figli, Tommaso (Lorenzo Lavia). Una conversazione inevitabilmente poco fluida, dove si parla quasi del nulla per evitare tematiche che non si possono dire, nè toccare. Perchè quando l’ interazione familiare è caratterizzata da troppi non detti, la comunicazione si fa intermittente, svogliata e, soprattutto, non esprime mai ciò che si vorrebbe davvero dire.
Tra immaginazione e follia Tommaso, seduto di spalle al pubblico, descrive a suo padre ( Ninni Bruschetta), incredulo e seccato, un’idea vaga per un suo racconto avente come protagonista un fantasma che dovrà dire qualcosa di decisivo, senza sapere ancora cosa fargli dire. All’eloquio dei due, si contrappunta il silenzio del secondo figlio, Romano (Lodo Guenzi), un silenzio con il quale egli sembra proteggersi per distanziare la sterilità di troppe parole e disconnettersi da ciò che vorrebbe davvero esprimere e urlare, ma non si può. Ognuno dei tre personaggi sembra vittima di una vita che non voleva ed il loro stile relazionale primitivo si risolve nel colpevolizzarsi reciprocamente, individuando sempre nell’ altro la causa della propria condizione. Si aspetta l’arrivo per cena di Arturo ( Matteo Branciamore): il terzo figlio che manca da casa da mesi e l’unico ad essersi sottratto alla legge paterna che lo voleva imbrigliato in casa insieme ai suoi fratelli. Si sospetta che Arturo sia “ospite” di un manicomio, perchè, come si sa, chi cerca un volo autonomo è sempre pazzo. La storia di Tommaso e Romano racconta infatti una sfida persa verso l’autonomia; essi muiono in casa senza provare a spiccare il volo, o cambiare qualche pagina al loro ripetitivo copione. A volte l’ignoto ed il suo vuoto fa più paura del già conosciuto..anche quando questo è mortale. Si sente l’assenza della figura femminile, ovvero un quinto personaggio accogliente a cui affidarsi ed affidare la propria salvezza: la madre. La causa di morte di quest’ultima è anch’essa indefinita e non sufficientemente metabolizzata, divenendo anch’essa oggetto di opinioni che dal suicidio sfociano in allusioni di omicidio.
La drammaturgia firmata da Arianna Mattioli coglie con puntualità le criticità di una famiglia “ordinaria” evidenziando, attraverso un’attenzione particolare alla scelta delle parole, la vibrazione emotiva dei protagonisti. Essi appaiono infatti costretti a nascondersi dietro il vuoto di parole neutre per anestetizzare ciò che dentro di loro altrimenti risuonerebbe. La parola quindi è usata anche per non dire, per allontanare..fino a smorzare. Significativo a tal proposito, la frase ricorrente del padre che parla del caldo e di come sarebbe gradito qualcosa di fresco da bere: per non sentire troppo si smette di sentire. Arturo sembra essere l’unico personaggio ”contro” a cui è affidato il compito di scoperchiare le apparenze di un certo involucro e di coglierne la scomodità della verità.
Decisamente apprezzabile l’intervento registico di Lorenzo Lavia nel restituire ulteriore autenticità e spontaneità ad una dinamica di tutti i giorni, come testimonia la bontà di alcune scelte. La sovrapposizione di voci durante i dialoghi più serrati, la disposizione dei personaggi e la loro modulazione vocale, non sempre a favore del pubblico, restituiscono, infatti, l’idea di una dinamica che si muove indipendentemente dallo spettatore, costringendo quest’ultimo ad un ruolo attivo nel cogliere, ascoltare e vedere. Interessante inoltre il lavoro sul corpo che diviene anch’esso parola fino a sostituire a volte il verbo quando questo diviene pericoloso. Credibile, inoltre è apparsa la diversificazione dei personaggi con tratti caratteriali che ben incarnano quanto drammaturgicamente espresso.
Gradevole è apparsa la recitazione complessiva che trova il suo apice in Ninni Bruschetta e Lorenzo Lavia, perfettamente a loro agio anche nei passaggi più intimi ed introspettivi dove il non detto diviene urlo esplicito. Efficace Bruschetta nel rimandare la ruvidità del suo personaggio, anch’egli predato e beffato dai risvolti della vita alla quale aveva chiesto solo normalità. La stessa normalità che chiede Tommaso che fantastica di trovare la forza di poter lasciare casa e dormire, anche solo una volta, in un letto diverso. Suggestiva l’interpretazione di Lavia nel comunicare l’implicito del suo Tommaso evidenziando i danni di un mancato sostegno genitoriale : “...Qualcosa mi ha sempre impedito di uscire di casa...evitando confronti, ho sognato...avrei voluto che qualcuno mi chiedesse veramente cosa volessi fare”. In crescendo la prova di Lodo Guenzi, apparso inizialmente forse troppo rigido nel corpo per poi esprimere efficacemente l’essenza del suo personaggio. Spontanea e fluida la recitazione di Matteo Branciamore anche se a tratti la dizione è sembrata perfettibile.
Con applausi convinti, il nutrito pubblico promuove senza esitazioni una pièce ben curata e di spessore.
Simone Marcari
6 settembre 2020
Informazioni
Drammaturgia: Arianna Mattioli
Regia: Lorenzo Lavia
Attori:
Ninni Bruschetta: il padre
Lodo Guenzi : Romano
Matteo Branciamore: Arturo
Lorenzo Lavia: Tommaso
Produzione:
Savà Produzioni Creative, Teatro della Contrada di Trieste
In collaborazione con Todi Festival