Recensione dello spettacolo “The Niu Sciò” della compagnia teatrale di Roma “Appiccicaticci”, andato in scena presso il Teatro Garbatella di Roma il 2 Agosto 2020
Sa essere irresistibile, alle volte, il teatro. Quando poi a manovrarne i pregiati meccanismi sono tre abili improvvisatori, maestri nel padroneggiare il palco con la disinvoltura che solo un testo, una regia, mesi di prove sanno dare, allora diventa persino insostenibile il pensiero che tutto questo in realtà non esista, che la tradizionale impalcatura teatrale possa essere distrutta e che dalle sue macerie possa venirsi a costituire ogni volta materia nuova e fertile, che di fronte al profano spettatore si stia dipanando un mistero seducente ed ipnotico cui difficilmente, a luci spente e sipario calato, si crede davvero. Eppure è esattamente questo a fare dell’improvvisazione teatrale un’arte a lungo rilascio, che continua ad esercitare il suo influsso estetico anche dopo ore, forse giorni, dalla sua rappresentazione: l’illusione che ne è intrinsecamente parte, la sua straordinaria e affascinante imprevedibilità, il suo non esistere né prima né dopo; il suo essere semplicemente presente, non senza però cementificarsi nella memoria, imprimendosi con incisività nei ricordi di un pubblico che pare magnetizzato; vivendo solo per pochi attimi, ma per poter sopravvivere eternamente.
Della morfologia improvvisativa è difficile parlare giacché la materia stessa è, in quanto tale, inafferrabile, in perpetuo mutamento, sfuggente alla logica. Non se ne può sapere niente con debito anticipo e questo pone inevitabilmente chi osserva nella condizione, senz’altro atipica – e per questo, forse, scomoda e sbalorditiva ad un tempo – di lasciarsi sorprendere, scoprendosi soli, su una sedia, in preda a sconosciute scariche di genuino stupore che sono sempre più drasticamente misere nell’essere umano. “The niu sciò” della compagnia “Appiccicaticci” di Roma provoca indiscutibilmente questo effetto, pronunciandosi in una comicità che pur riconosce pari legittimità a momenti più profondi e raffinati, reiterando un’ironia sagace e mai banale, che non è stucchevole o ingombrante, ma dosata con meticolosa precisione. Il ritmo fluido e ondivago delle scene assicura un’immersione nello spettacolo mai vacillante. L’impeccabile accompagnamento musicale – improvvisato anch’esso – abbraccia dimensioni e atmosfere ibride, che navigano qualunque mare possa costituire il miglior sostegno per le storie inscenate. Lo spazio del possibile ha confini vacui, della leggera consistenza di un pastello, capaci di rompersi e aprirsi a scenari ogni volta diversi, inesplorati, tanto ignoti quanto, per questo, riccamente fitti di infinite e inaudite possibilità, entro cui i tre improvvisatori in scena trovano l’opportunità di perdersi per trovare novità per loro inimmaginate. È incantevole assistere a questo processo. Lo spettatore non porta a casa solo una bella storia, qualche risata, un paio di singolari emozioni confezionate sulla scena; conserva piuttosto il privilegio d’essersi sentito testimone scelto della magia della creazione, che avviene lì, davanti a lui, per lui, con lui. La singolare velocità di pensiero, reazione, adattamento che scansiona l’intero spettacolo, conferendogli la convincente parvenza di qualcosa di cui difficilmente si può pensare “è improvvisato”, svela e manifesta la nutrita intesa adesiva che lega i tre improvvisatori, Renato Preziuso, Tiziano Storti e Alessio Granato, la cui unanime destrezza li rende ingranaggi di un solo meccanismo compatto e robusto, che impera su palco e domina l’imponderabile causalità dei suggerimenti del pubblico, il quale viene integrato con una tale coerenza nello spettacolo da divenire il quarto ingranaggio in scena, dignitosamente e meritatamente riconosciuto dagli attori stessi come indispensabile alla buona riuscita dello spettacolo.
Eppure questo non è solo stato uno spettacolo di improvvisazione teatrale. Sarebbe, infatti, indebito limitarsi a questa puntuale definizione senza considerare il contesto entro cui questa trova espressione. Recuperare il teatro dopo la pandemia è coraggioso, meritevole di un applauso generale, avulso da qualunque discriminazione o tradizione; un applauso che forse è il momento più autentico e sincero del teatro, quello in cui si consuma tra attori e spettatori la vera relazione; dove gli uni riconoscono agli altri una presenza necessaria e insostituibile. Un applauso che è un tenersi per mano senza ancora potersi toccare davvero, ma per ringraziarsi reciprocamente d’essere stati lì, che sia stato sopra o sotto il palco, in piedi o seduti, sotto la calorosa luce dei riflettori così come nella penombra della sala. Un applauso che ha un suono commovente, che a lungo è mancato a tanti, che per tanti pareva essersi ridotto ad un’eco persa in una memoria lontana. Un applauso che oggi ritorna, più fragoroso di ieri, simbolo di un incontro sensibile, bidirezionale, che non avrebbe ragion d’essere se non vi fosse un pubblico grato al suo attore e un attore riconoscente al suo pubblico e che, come ieri, in maniera sentitamente toccante, si è spinto in proscenio e, col suo pubblico, ha applaudito.
Giuditta Masselli
4 agosto 2020