Recensione dello spettaolo Liolà, di Luigi Pirandello, regia di Francesco Bellomo - in scena al Teatro Quirino dal 4 al 16 febbraio 2020
Dove l’apparenza è un imperativo, chi si sente smascherato da un travestimento poco credibile trama e tesse il proprio “giuoco”.. fin quando c’è vantaggio. Ma ogni ruolo ha le sue regole e chi giuoca deve continuare a farlo. Anche quando non conviene più.
Lo scenario contadino, nel tempo che separa la raccolta delle mandorle dalla vendemmia, sarà protagonista, spettatore e causa dei tormenti e meschinità dei suoi figli. L’anziano benestante Zio Simone Palumbo, cugino di Zia Croce Azzara, madre di Tuzza, appare come un personaggio cupo ed autoritario, orientato al profitto e all’apparenza e poco incline a slanci emotivi. Egli, pur essendo da quattro anni sposato con Mita, una giovane contadina orfana, non riesce ad avere figli da questa, innescando una prevedibile trama di dicerie e maligne allusioni intaccanti la sua immagine. Inoltre, il desiderio di un figlio, in certi cuori inariditi dal sole e dalla terra, nasce da esigenze pratiche, scevre da ogni rimando affettivo e dissonanti con la parola amore: custodire e non disperdere l’eredità paterna è la vera missione del discendente.
A far da contrappunto a Zio Simone, è l’assoluta leggerezza di Liolà, un giovane bracciante, spensierato e vitale. Nella penombra di una malcelata invidia e rancore mai sopito, emerge la vendetta di Tuzza a sua volta rimasta incinta di Liolà, rifiutandosi però di sposarlo a causa della sua inaffidabilità. Ella vuol far pagare a Mita le sue passate frequentazioni con Liolà anche quando è già sposata con zio Simone. Con la complicità di sua madre e l’assenso dello stesso Zio Simone, Tuzza fa credere alla comunità che il figlio sia di quest’ultimo, spodestando di fatto Mita. Ma nel valzer delle vendette, Liolà, avendo capito la trama di madre e figlia, si presta al giuoco da queste voluto. Egli, infatti, invece di rivendicare il figlio di Tuzza, persuade Mita a rimanere incinta di lui, spostando di nuovo gli equilibri in favore di questa, agendo inoltre la sua vendetta personale per esser stato rifiutato da Tuzza. Zio Simone, sicuro di essere l’artefice della gravidanza della moglie ed intenzionato a dedicarsi al “legittimo” figlio, invita Liolà a confessare la paternità della gravidanza di Tuzza. Ma la fedeltà al giuoco da parte di Liolà non consentirà a zio Simone e Tuzza premature scappatoie. Il giuoco infatti va portato a termine anche quando non diverte più.
La commedia campestre “Liolà” condensa, nell’essenza di uno scenario prevalentemente contadino, i valori, meschinità e dicerie su cui poggia e di cui si alimenta tale società nella prima metà del ‘900. I personaggi sembrano essere accomunati dalla tendenza a nascondere e proiettare all’esterno i loro aspetti meno decorosi. Zio Simone preferisce nascondersi, ancor prima che nascondere, la sua probabile sterilità, attribuendo alla moglie la colpa dei mancati figli. Anche Liolà sembra celare, dietro l’allegria, a volte artefatta, la sua incapacità di mantenere una relazione e di identificarsi nel ruolo di padre. Egli infatti, pur avendo avuto tre figli da tre donne differenti, non si è mai sentito davvero padre, delegando a sua madre il loro accudimento. Ognuno dei protagonisti è portatore di un “non detto” e di sotterraneo rancore sfociante in successive azioni vendicative.
Le regia di Francesco Bellomo, orientata a contattare l’anima dei personaggi, definisce mirabilmente i contorni della loro essenza, oltrepassandone l’apparenza. Il mantenimento dell’inflessione siciliana, inoltre, accompagna lo spettatore verso l’immediatezza di un certo tipo di realtà, esaltandone i tratti. Pur essendo perfettamente compatibile con la dinamica della vicenda, l’uccisione di Liolà per mano di Tuzza, piuttosto che il semplice ferimento, come nell’originale, è sembrata una scelta discutibile. Tale soluzione, presumibilmente motivata dall’esigenza di sottolineare maggiormente la frustrazione di chi è rimasto beffato dal proprio gioco, ha rischiaito di denaturare sul finale una pièce sostanzialmente ineccepibile. Apprezzabile il lavoro sul corpo nel veicolare stati emotivi e “non detti”, evincibile nel personaggio di Tuzza (Roberta Giarrusso) fisicamente distante dalla coralità del gruppo d’appartenenza, comunicando in tal modo il proprio tormento. Analogamente, anche la figura di Mita (Alessandra Ferrara), contrapposta alla malizia delle sue coetanee, sembra ricalcare somaticamente le fattezze di una persona delicata e ingenua. Anna Malvica riveste di spessore e credibilità la “sua” Zia Croce, ben intercettandone l’insidiosità nascosta dietro le apparenze. Enrico Guarnieri, nel ruolo di Zio Simone, riesce ad esprimere magistralmente la ruvidità e il dramma di un personaggio grezzo, intriso della propria cultura locale e al contempo portatore di una malcelata sofferenza che lo rende vulnerabile e goffo. Decisamente di spessore le prove attoriali di Margherita Patti nel ruolo di Comare Gesa, la zia di Mita, e Nadia Perciabosco, nei panni di zia Ninfa, la madre di Liolà. Ottima la compagine attoriale che vestendo i panni delle tre giovani e spensierate contadine, Ciuzza (Giorgia Ferrara), Luzza (Sara Baccarini) e Nela (Federica Breci), crea uno sfondo colorato e apparentemente leggero su cui si innesta una vicenda densa. Alessandra Falci interpreta efficacemente il ruolo di Carmina, detta La Moscardina: un personaggio caratterizzato dalla propensione alla “divulgazione” di pettegolezzi e novità, assurgendo al ruolo di raccordo tra la leggerezza di un certo mondo esteriore ed il tormento della sfera personale ed intima dei personaggi. Giulio Corso, attraverso una performance decisamente convincente, che trova nelle parti cantate il suo accento, rende assolutamente credibile la figura di Liolà, trasmettendo efficacemente la complessità dell’uomo, sottostante ad un’apparente superficialità. Preziose ed appropriate le musiche di Mario D’Alessandro e Roberto Procaccini intonate e ballate coralmente dagli stessi protagonisti che esaltano in tal modo il valore della collettività nel mondo campestre. Tuttavia, tale soluzione musicale è sembrata in alcuni momenti troppo insistente e, rischiando di perdere il ruolo di preziosa rifinitura di un risvolto narrativo, ha saturato eccessivamente la scena.
Spettatrice e padrona di casa, una scenografia mirabile ( Carlo De Marino) che, con la complicità del progetto luci (Giuseppe Filipponio), e dei costumi (curati dallo stesso De Marino), restituisce con veridicità e poesia, le atmosfere e suggestioni di un paesaggio rurale, nelle morbidezza dei colori dell’alba e nell’ombrosità cobalta della sera. Tale suggestione scenica sembra estendersi oltre i confini del palco, accogliendo il pubblico in quel paesaggio roccioso e brullo cotto dal sole, metafora della ruvidità dell’animo dei protagonisti.
I numersi applausi a scena aperta testimoniano l’indiscutibile gradimento da parte del numeroso pubblico accorso alla prima, per un lavoro di spessore e cristallina qualità.
Simone Marcari
6 febbraio 2020
Informazioni
Giulio Corso: “Liolà”
Enrico Guarnueri: Zio Simone
Nadia Perciabosco: Zia Ninfa
Anna Malvica: Zia Croce
Roberta Giarrusso: Tuzza
Alessandra Ferrara: Mita
Margherita Patti: Zia Gesa
Alessandra Falci: La Moscardina
Sara Baccarini: Luzza
Giorgia Ferrara: Ciuzza
Federica Breci: Nela
Scene e cosrumi: Carlo De Marino
Musiche: Mario D’Alessandro e Roberto Procaccini
Disegno luci: Giuseppe Filipponio
Regia: Francesco Bellomo
Produzione Corte Arcana Isola Trovata, Teatro ABC Catania, ATA Associazione Teatro Arte