Lunedì, 25 Novembre 2024
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I soliti ignoti all’Ambra Jovinelli: i sogni infranti contro la parete sbagliata

Recensione dello spettacolo I soliti ignoti. Adattamento teatrale di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli tratto dalla sceneggiatura di Mario Monicelli, Suso Cecchi D’Amico, Age & Scarpelli. Con Vinicio Marchioni e Giuseppe Zeno e con Augusto Fornari, Salvatore Caruso, Vito Facciolla, Antonio Grosso, Ivano Schiavi, Marilena Anniballi. In scena al Teatro Ambra Jovinelli dal 18 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020

Dove le rovine della guerra sono ancora il paesaggio prevalente e il brecciato e la polvere di ieri non sono ancora l’asfalto e il lastricato di oggi, dove al benessere dei pochi corrispondeva la povertà e la precarietà dei tanti: era questa l’Italia del dopoguerra degli anni ‘50. Un’Italia in bianco e nero come quei filmati di tanti anni fa, dalla vita socioeconomica anch’essa bicolore, in cui spesso era la fame e non il talento a forgiare il mestiere. Sull’orizzonte di tale sfondo si stagliano i sogni improbabili di un gruppo sgangherato di ladruncoli, illusi professionisti ma destinati a rimanere ladri di polli, che decide di approfittare di un’occasione favorevole per tentare di cambiare vita attraverso un “audace colpo”.

Lo spunto della vicenda nasce e prende forma da un dialogo tra due detenuti, anch’essi ladri per fame. In particolare, Cosimo, indotto a credere con l’inganno che Peppe, il suo interlocutore, avrebbe dovuto scontare più anni di galera rispetto a lui, decide di confidargli il suo “piano” che attuerà una volta libero. Tale piano prevedeva di introdursi in un appartamento di sua conoscenza, forzarne una sottile parete ed accedere alla cassaforte situata nella sala del Monte di pietà, confinante con l’appartamento stesso. Una volta appresi i dettagli e le informazioni necessarie, Peppe, che in realtà sarebbe uscito di galera l’indomani, anticipa Cosimo nell’attuazione dell’idea, insieme ai suoi improbabili “colleghi”. Ancor più e ancor prima dell’inevitabile esito finale, conseguenza ineluttabile dell’improvvisazione dilettantesca, sarà la fase preparatoria al colpo ad ispessire il nucleo narrativo cogliendone l’anima e rivelandoci l’essenza. Tale percorso di avvicinamento al colpo diviene sintesi e perfetta commistione tra l’aspetto comico, restituito dalla forte caratterizzazione dei personaggi, e il corrispettivo risvolto drammatico. Le stesse peculiarità dei protagonisti, foriere di risate e divertimento, divengono al contempo motivo di riflessione.

Dalle precarie condizioni economiche e sociali dell’epoca, scaturiva, infatti, una vera e propria lotta per la sopravvivenza che nell’arte di arrangiarsi trovava la propria definizione. La banda di improvvisati ladri, igenui al punto tale da sfiorare quasi la purezza, diviene simbolo e paradosso tra ciò che si era nel proprio intimo e ciò che si doveva diventare per uscire da una certa miseria. Sarà proprio lo stridore dissonante tra le ambizioni fuori portata dei cinque personaggi e la loro condizione attuale, destinata a rimanere immutabile, a creare il fatto comico ed anticipare quello drammatico. Da un punto di vista squisitamente economico, la difficoltà dell’epoca storica che l’Italia stava attraversando si riflette anche nella disabitudine a desiderare e nel ridimensionamento dei sogni. I progetti dei membri della banda, in caso di colpo riuscito, appaiono infatti scevri di voli pindarici, risultando invece modesti e terreni al punto tale, da non poter spiccare il volo e non sembrare nemmeno sogni. 

L’appropriatezza e lo spessore degli interventi registici da parte di Vinicio Marchioni, ancor prima che dal lavoro sui personaggi, si evince dalle scelte. L’aver saputo individuare con precisione i passaggi narrativi ed emotivi su cui poter intervenire, separandoli da quelli da custodire in originale, ha permesso, infatti, al regista di creare un prezioso equilibrio tra il rispetto del capolavoro monicelliano, datato1958, e la personalizzazione dello stesso. Analogamente, Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli, nel loro adattamento della sceneggiatura, integrano alla perfezione le partiture dell’epoca con inserti drammaturgici inediti, atti a restituire corposità ai protagonisti. Il monologo di Cosimo ( Augusto Fornari), illuminato dall’alto da una luce bianca, che racconta la propria emarginazione e la propria morte durante una fuga dopo un disperato tentativo di scippo, rappresenta il punto più alto di alchimia tra regia e adattamento drammaturgico teatrale. Elegante infatti la scelta di personalizzare alcuni momenti riguardanti la storia di tale personaggio, facendo raccontare direttamente a Cosimo stesso, da una dimensione altra, le sue vicende e la sua fine, piuttosto che rappresentarle in scena.

Particolarmente equilibrata è stata la caratterizzazione dei protagonisti che hanno ricalcato, nelle loro peculiarità, i personaggi originali. Basti pensare a “Capannelle” (Salvatore Caruso) dal forte accento romagnolo, Tiberio (Vinicio Marchioni) il fotografo squattrinato e Peppe il pugile (Giuseppe Zeno), con quella sua balbuzie e spavalderia, molto simile nei tratti caratteriali all’analogo personaggio interpretato all’epoca da Vittorio Gassmann. Altrettanto verosimile il personaggio di Ferribbotte (Vito Facciolla), il siciliano tutto d’un pezzo, e quello di Mario (Antonio Grosso) innamorato di Carmela, la sorella di Ferribbotte. A Marilena Anniballi viene affidata, invece, la doppia parte sia di Carmela che di Nicoletta, la domestica della casa nella quale la banda avrebbe dovuto introdursi per arrivare alla cassaforte. È da notare che, a differenza dei personaggi sopraccitati, quello di Dante Cruciani (Ivano Schiavi), l’esperto di casseforti e consulente della banda sullo scassinamento delle stesse, non prende spunto, se non per piccoli accenni, da quello interpretato in origine da Totò. Ci piace pensare, a tal proposito, ad una precisa e romantica scelta registica, di non imitare e avvicinarsi a ciò che è unico e per questo non  paragonabile.

L’impianto scenografico (Luigi Ferrigno), volutamente essenziale, ha come sfondo un pannello raffigurante una foto della desolazione di Roma nell’ epoca del dopoguerra. Tale allestimento, unitamente al progetto luci, curato da Giuseppe D’Alterio, sembra ricreare efficacemente l’ambientazione in bianco e nero della pellicola. Decisamente apprezzabili i costumi (Milena Mancini) per finitura e fedeltà a quelli originali: essi restituiscono credibilmente i sapori e le atmosfere di quel particolare periodo storico, impreziosendo la narrazione stessa.

La corposa affluenza del pubblico alla prima, sfiorante il tutto esaurito, decreta il meritato successo per una commedia accurata e ben strutturata.

 

Simone Marcari 

21 dicembre 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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