Recensione dello spettacolo Così è se vi pare, di Luigi Pirandello. Con Riccardo Polizzy Carbonelli, Marina Lorenzi, Martino Duane, Caterina Gramaglia, Riccardo Ballerini, Alessandra Scirdi, Marial Bajma Riva, Marco Usai. Adattamento e regia: Francesco Giuffrè. In scena al Teatro Ghione dal 28 novembre all’8 dicembre 2019
La scrittura di Pirandello è spesso espressione e racconto di un viaggio verso i meandri meno esplorati dell’animo umano. Attraverso uno stile espressivo godibile, una stesura fluida e solo apparentemente fruibile, l’autore cela, deride e inscena le umane debolezze nei tessuti di piccinerie e finti bisogni vuoti. La ricerca di una verità oggettiva, assoluta e, come tale, inesistente, che possa mettere a tacere le umane incertezze e gli “insonni” dubbi, così futili da sembrare importanti e vitali, è uno dei perni attorno ai quali è incernierata la vicenda di “Così è se vi pare”. Ad ospitare l’antefatto e il suo sviluppo, è l’elegante salotto dell’abitazione del Consigliere Agazzi (Riccardo Ballerini). Qui sua moglie Amalia (Alessandra Scirdi) e sua figlia Dina ( Marial Bajma Riva) esprimono alla loro amica, la signora Sirelli, tutto il disappunto per il trattamento ricevuto da parte della signora Frola (Marina Lorenzi), la loro nuova vicina di casa, dalla quale si erano recate per le presentazioni, senza però esser state ricevute.
Si dice, inoltre, che alla donna, suocera del signor Ponza, a sua volta subalterno dello stesso Agazzi, non sia permesso di frequentare la figlia che vive da sola con il marito in una casa appena fuori dal paese. La madre deve così accontentarsi di salutare la signora Ponza dal cortile, quando la vedrà affacciarsi dalla finestra della sua stanza, dove il marito la tiene rinchiusa. Le versioni discordanti che genero e suocera offriranno ai presenti per spiegare tale anomalia, rimpallandosi indirettamente l’accusa di pazzia, rappresenta il nucleo centrale della vicenda. Questa è improntata sull’affannosa, quanto inutile, ricerca della verità da parte degli ospiti di casa Agazzi, stretti confusamente nella morsa di due versioni perfettamente attendibili e al contempo contrastanti. Il signor Ponza (Riccardo Polizzy Carbonelli) infatti, informa gli astanti sulla pazzia della suocera: la sua prima moglie, in realtà, è morta da quattro anni, e quella attuale è la seconda che sostiene il “giuoco” recitando con la Frola il ruolo di sua figlia. La suocera, infatti, stando alla versione del genero, non volendo accettare la realtà, è rimasta convinta che la figlia sia ancora viva e tenuta prigioniera in casa. D’altro canto, la “verità” della signora Frola addita come colpevole di tale situazione il signor Ponza, descritto come lavoratore irreprensibile ma... instabile. Egli, sposandosi, fu preso da una tale frenesia d’amore da mettere in pericolo anche la salute psicologica della moglie: questa, in accordo con i medici e con la madre, fu sottratta dalla sua abitazione per essere ospitata in una casa di salute, all’insaputa del marito. Il signor Ponza, non avendo più trovato la moglie, si convinse della sua morte, e quando dopo un anno le fu ripresentata, egli credette fosse un’altra donna. Ma in realtà, sostiene Frola, in cuor suo il signor Ponza conosce la verità e, per paura di una seconda sottrazione, tiene la moglie al sicuro in una stanza. Dall’affannoso turbinìo che sconvolge il salotto di casa Agazzi, sempre più in preda dal susseguirsi di notizie che destabilizzano le certezze credute definitive, soltanto Ludivico Laudisi, fratello di Amalia, sembra prendere con disinvoltura le distanze e rimanere centrato. Egli, ben consapevole della soggettività della realtà e di come questa sia subordinata e influenzata dall’unicità di chi la esperisce, si distingue per la sua indifferenza alla questione, guardando dall’alto coloro che si struggono nella sterilità delle loro ricerche. A ben guardare, ai signori di casa Agazzi non interesserebbe nemmeno conoscere la realtà oggettiva, si accontenterebbero anche di molto meno: l’importante è che sia una “versione” condivisa. Per tale motivo Laudisi, per chiudere senza ulteriori affanni la ricerca, chiede al prefetto (Marco Usai) di offrire una verità qualsiasi ma ufficiale. Ma la verità è indissolubilmente legata alla nostra soggettività che nessuno all’infuori di noi stessi può svelarci...nemmeno la signora Ponza.
La stesura è il riflesso della necessità dell’uomo di riferimenti solidi e soprattutto condivisi, a favore dei quali si è disposti a sacrificare spesso il soggettivo sentire a favore di una realtà approvata. Il dubbio, con la sua democratica oscillazione tra diverse ipotesi, senza soffermarsi troppo su nessuna e quindi senza mai dipanarsi, diviene coprotagonista della vicenda, in qualità di un fastidioso nemico da disarmare immediatamente. Laddove potrebbe fiorire un libero pensiero che accetti e preveda diverse verità tante quanto gli sguardi che le contemplano, si contrappone la bramosia della ricerca di una sola realtà che anestetizzi le altre in favore di una “versione” ufficiale.
Ottimamente armonizzati la scenografia (Fabiana De Marco), il disegno luci (Luca Palmieri) e la regia di Francesco Giuffrè, dal dialogo dei quali nasce un allestimento elegante e denso, atto ad accompagnare il peso della parola, divenendo esso stesso verbo emotivo. Numerosi rimandi di natura metaforica sostengono, inoltre, l’essenza del pensiero pirandelliano. In particolare, a fronte di una scena centrale ben rifinita ed elegante, si nota la presenza, ai lati della stessa, di oggettistica ammassata a caso, quasi a voler significare lo stridore tra apparenza e realtà, condensati nel concetto di maschera. La scelta registica di ipotizzare una scenografia a due livelli, in cui la parte rialzata ospita Laudisi, sottolinea con raffinata eleganza lo sguardo alto ed “oltre” dello stesso, che prende le distanze dalla superficialità della coralità grazie ad un pensiero profondo, mirante a cogliere l’essenza della relazione tra l’uomo e la sua realtà. Molto pertinente e densa di significato la scelta registica di far oscillare da Laudisi il lampadario del salone di casa Agazzi, anch’essa metafora del dubbio e dell’oscillazione della verità, sempre più imprendibile e sempre meno oggettiva. L’adattamento drammaturgico da parte dello stesso Giuffrè è apparso ben calibrato, attraverso l’integrazione nei personaggi presenti di alcune partiture destinate in origine ad altre figure, assenti in questa versione teatrale ( in particolare, la signora Cini e il signor Sirelli). La recitazione, apparsa complessivamente di buon livello, trova il suo acuto nella prova di Caterina Gramaglia, nei panni della signora Sirelli, e di Martino Duane, interprete di Ludovico Laudisi, mentre oltremodo carattetizzate, ai limiti della caricatura, sono sembrate le interpretazioni di alcune figure minori. La regia di Francesco Giuffrè ha impresso inoltre, plasticità e movimentazione ai personaggi, sottolineando ulteriormente la loro affannosa rincorsa verso la verità, contrapponendo metaforicamente tale dinamismo all’indifferente calma e staticità del Laudisi.
Il nutrito pubblico del Teatro Ghione, non privo di personalità del mondo dello spettacolo, ha applaudito con entusiasmo una versione teatrale di indiscutibile qualità.
Simone Marcari
30 novembre 2019