Recensione dello spettacolo "Non mi ricordo più tanto bene", in scena al Teatro India dal 20 al 30 Maggio 2019
Un vecchio al centro della scena vuota: Antoine D (Carlo Valli). In quello spazio senza alcuna definizione Didier Forbach (Gianluigi Fogacci) e Céline Brest (Federica Rosellini), uomo e ragazza gli si fanno intorno.
Antoine ricorda assai poco: la sua età, 96 anni, del suo cognome solo una lettera: D. Dell’interezza della sua persona, solo una piccola percentuale. Della sua vita, della famiglia, dei figli riporta elementi confusi e apparentemente inattendibili. Sa che qualcuno ha preso il suo posto in casa, poi fumo. Afferma però con certezza di essere uno storico: che paradosso, ricordare eventi remoti della Storia e non saper nulla della propria.
Ma non è uno smemorato Antoine, non ha una qualche forma di demenza. Ha solo scelto cosa ricordare. Memoria selettiva. Un filo da seguire per orientarsi nel labirinto della vita, che i suoi interlocutori, fra domande ed esperimenti, inducono a srotolare. Il percorso accidentato, lungo cui i tre protagonisti si avviano si addentra in una simbolica selva. C’è un metodo da seguire. I due interlocutori si fingono attori; c’è una quercia, testimone immobile del tempo, ma così simile all’albero di Stanislavskij: c’è bisogno del teatro per ritrovare sé stessi.
Ma è lì che quel filo prende volute inattese, avvolgendo nelle sue spire, come i serpenti di Laocoonte, anche Didier e Céline. Non più comprimari dal ruolo non meglio identificato, ma protagonisti, assieme ad Antoine di un unico, cupo dramma, un dramma familiare. Tutti legati da quel maledetto filo, che conduce a un cognome dimenticato. Una storia che si ripete in una malefica coazione, per sfuggire dalla quale l’unica via è l’oblio della memoria.
Il testo di Gerard Watkins, attore e drammaturgo inglese naturalizzato francese, è parte di un dittico – “Ricomporre l’infranto” – il cui secondo pannello, “Scene di violenza coniugale”, verrà messo in scena a partire dal prossimo 28 Maggio, nell’insolita ambientazione di un appartamento privato.
Testo complesso, a tratti criptico, imbevuto di psicanalisi, colmo di riflessioni che sopravanzano i dialoghi. Testo per attori: non solo per la struttura della pièce, priva di ogni altro orpello, che non sia la recitazione, ma perché denso di monologhi lunghi e sofferti, che lasciano ampio spazio all’espandersi dell’interpretazione. Ma anche testo impegnativo, in cui l’emotività, di certo abbondantemente presente, come un ricco giacimento aurifero, va estratta dalle viscere del copione, rischiando altrimenti di rimanere sepolta sotta la pesante coltre dell’intellettualismo.
Carlo Valli, Gianluigi Fogacci, Federica Rosellini (nomi che – fa piacere inserire questo personale inciso – costituiscono una garanzia per lo spettatore) si donano, ognuno con il proprio registro, dall’irruente dinamismo fisico di Rosellini, all’asciutta misura di Valli. E riescono perfettamente nell’impresa, facendo maturare i frutti di un lavoro attoriale presumibilmente assai intenso, sia nella profonda immersione preparatoria nel testo, che nell’esternazione dell’atto recitativo. Grazie ai tre protagonisti, nelle lunghe parti solistiche loro affidate, lo spettatore viene sollevato dalla pur stimolante riflessione e ricondotto a quello che è il primario oggetto del teatro: l’uomo e la sua misera e gloriosa vicenda terrena, luogo dove attore e spettatore, non più separati dal palcoscenico si ricongiungono.
Del ruolo della Memoria si discute in svariati contesti, talora necessariamente. Gerard Watkins ci pone davanti ad un angolo visuale originale e scomodo: la Memoria come filtro. E l’idea che ciò che crediamo di sapere di noi, della nostra vita o del mondo in generale, in fondo è solo ciò che abbiamo voluto ricordare, è un pensiero che angoscia.
Valter Chiappa
25 Maggio 2019