Martedì, 26 Novembre 2024
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Enrico IV di Carlo Cecchi. Per sempre: perché non c’è convenienza nel rinsavire

Recensione dello spettacolo Enrico IV con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò. Adattamento e regia di Carlo Cecchi  in scena al teatro Argentina dal 12 al 24 febbraio 2019

Maschera e apparenza si contrappongono all’autenticità della pazzia e racchiudono l’anima pirandelliana condensata nella drammaturgia dell’Enrico IV. Il testo stesso è una maschera che lentamente svela il volto che nasconde, non immediatamente decifrabile, ma gradualmente più riconoscibile al sollevarsi della stessa.
Nei primi anni del novecento, in occasione del carnevale, un gruppo di signori benestanti decide di compiere una cavalcata in costume, indossando gli abiti di personaggi storici. Colui che impersonava Enrico IV di Germania, un giovane venticinquenne, cade da cavallo sbattendo la testa contro una roccia e rimane intrappolato nel suo personaggio credendosi realmente l’imperatore della dinastia dei Salii.

I parenti, amici e servitù, rassegnati alla pazzia dell’uomo, sono costretti ad assecondarlo indossando maschere e costumi dell’ undicesimo secolo ed interpretando ruoli prestabiliti. Tale situazione clinica dura dodici anni, ma quando l’uomo rinsavisce, capisce ben presto che non c’era alcuna convenienza ad essere guarito.. nè a farlo sapere. Il mondo intorno a lui era cambiato e la donna di cui era invaghito, la marchesa Matilde Spina, ora è sposata con colui che lo fece cadere da cavallo, pungendo segretamente l’animale che impennandosi disarcionò il re. Meglio far credere di essere ancora malati e prendersi gioco di quel girotondo di persone costrette ad indossare maschere dell’epoca per esser credibili, nel disperato tentativo di ridestare la sua memoria, ricreando dopo vent’anni la situazione di allora. È questa la vendetta del nostro Enrico IV, unico, fra i tanti, consapevole di recitare una parte mentre si fa beffa degli altri, incapaci ormai di distinguere la maschera dal vero io, nascosto, dimenticato e diluito nelle innumerevoli interpretazioni della vita quotidiana.

Il personaggio di Enrico IV diviene una figura scomoda perchè è l’unico realmente libero dalle convenzioni del “dover essere” e dalle mascherate circostanziali: agli occhi degli altri è pazzo non perchè, si badi bene, si crede re ma perchè solleva le altrui maschere, svelando le contraddizioni tra essere e apparire. Conviene alla massa, quindi, credere e soprattutto diffondere, che Enrico IV è un pazzo e che come tale non è attendibile e va tenuto distante dalla gente. Risulta evidente, inoltre, come Pirandello usi il concetto di pazzia come un vero e proprio meccanismo di difesa, atto ad isolare l’individuo dalle spiacevoli, e non arginabili, vicende della vita. Infatti, al pari del signor Leone Gala nel Giuoco delle parti che, per non far entrare troppo nel mondo dentro di sè, matura una disorientante indifferenza verso gli altri, Enrico IV finge la pazzia per isolarsi dalle sofferenze d’ amore quando si accorge che la sua Matilde Spina è sposata col barone Tito Belcredi ( Roberto Trifirò). Pazzia non solo per proteggersi da se stessi, in termini di risonanze emotive, ma anche per proteggere se stessi, ovvero uno scudo che deresponsabilizza l’individuo dalle sue azioni.. come il finale della tragedia dimostrerà. Interessante e di livello assoluto il registro interpretativo scelto da Carlo Cecchi, nei panni di Enrico IV, che coglie immediatamente la visceralità del personaggio, alternando toni caricaturali aulici e solenni, quasi ad irridere la vita e chi l’asseconda, a momenti in cui la voce diviene più graffiante, sfiorando il sussurrato, quando il verbo si fa perno e scrigno del pensiero pirandelliano. L’Enrico IV di Cecchi appare immediatamente un personaggio alto, che porta nel soma e nello spirito i segni della propria vita che solo ora può guardare con ironia, come un vecchio marinaio logorato e battuto dal mare, ma a questi sopravvissuto. Quasi per non confondersi con lo sfondo e il rumore della gente, Enrico IV esprime la densità della sua parola quando si trova decentrato dalla scena, come ad avvertire lo spettatore che quello che sta ascoltando è altro rispetto al prevedibile parlar comune.

La scelta registica di Cecchi di utilizzare l’espediente del metateatro, per caratterizzare prevalentemente il suo personaggio, esalta ulteriormente i limiti della contraddizione tra l’essere ed apparire, perno centrale del pensiero pirandelliano. Enrico IV, infatti, vuole semplicemente essere e si ribella alla maschera e alla recitazione, preferendo la spontaneità verbale e somatica che non può essere imbrigliata da nessun copione. Il re, palesemente scomodo nel mantenere fedeltà alla drammaturgia, sembra a tratti caricaturizzare la stessa, troppo distante dal suo temperamento. Apprezzabile ed evidente l’intenzione di Carlo Cecchi di snellire la partitura pirandelliana attraverso la scelta di un linguaggio moderno e la rivisitazione di alcuni passaggi poco masticabili, a volte omessi o sintetizzati. L’inserimento di alcune frasi in dialetto napoletano, atte ad alleggerire la pregnanza della drammaturgia attraverso uno spunto originale ed estemporaneo, sostengono tale orientamento registico. Tuttavia, la sensazione generale è di trovarsi comunque al cospetto di una rappresentazione oltremodo piena poichè, a fronte dello sforzo di renderla accessibile ai più, vengono inseriti altri elementi che di fatto tornano a saturare la piéce. Le stesse sopracitate buone intuizioni, riscontrabili nell’adattamento della drammaturgia, invece di restare preziosi elementi di rifinitura, sono divenuti tratti dominanti, perchè abusati, a tal punto, da snaturare la stesura originale. Il pubblico, infatti, pur rimanendo assolutamente entusiasta e soddisfatto della impeccabile recitazione complessiva, ha rischiato talvolta di assistere ad una rappresentazione eccessivamente personalizzata. L’accurata scenografia di Sergio Tramonti, ben armonizzata con il progetto luci di Camilla Piccioni, restituisce eleganza e solennità alla piéce, allestendo attorno ai personaggi un clima scenico che ben sostiene il tenore della recitazione: complici in questo i costumi di Nanà Cecchi che contribuiscono ad impreziosire la stessa. Molto credibile e centrata la caratterizzazione che Gigio Morra restituisce al suo personaggio, il dottor Genoni, colui chiamato a studiare il caso clinico di Enrico IV e costretto a travestirsi da monaco. L’attore riesce a far convergere efficacemente nella sua interpretazione aspetti di timorosa riverenza, diffidenza e genuina astuzia dando vita ad un divertente e signorile personaggio napoletano; Angelica Ippolito colora appropriatamente la “sua” marchesa Matilde Spina di quell’apparente distacco regale, che non la esonera però dal legarsi anch’essa alla propria maschera.

 

Simone Marcari

 

 

 

 

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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