Recensione dello spettacolo Novecento, in scena al teatro Lo Spazio il 14 maggio 2017
C’è una nave ormeggiata nel porto, cullata dalle onde e dal canto dei gabbiani. Dinamite nel suo ventre arrugginito, ferito dalla guerra, ormai inutile e abbandonato. E un uomo, nato e cresciuto su quel relitto, quando ancora solcava l’Oceano, che non ha mai toccato la terraferma e porta un nome che sembra uno scherzo…
Inizia così Novecento, prima pièce teatrale di Alessandro Baricco (1994), messa in scena il 14 maggio scorso presso il teatro Lo Spazio (Roma) in un adattamento delle giovanissime registe e attrici Mimosa Maniaci e Ortensia Macioci. Il testo originale, definito dall’autore stesso “in bilico tra una messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce”, ha la forma di un vero e proprio monologo affidato alle parole del trombettista Max Tooney, unica presenza scenica e narrante.
Dall’inizio alla fine dell’opera, in un flashback lungo 60 pagine, la sua voce fa rivivere la leggenda di Danny Boodmann T.D. Lemon, “il più grande pianista che abbia suonato sull’Oceano”, a bordo di quel transatlantico da cui, in tutta la sua vita, non riuscirà mai a scendere.
Nell’adattamento di questa coppia tutta al femminile però le parole del narratore si colorano di più voci, tutte diverse e riconoscibili, tutte rivolte ad un pubblico che rimane sempre il loro diretto interlocutore. Sette voci, per altrettante talentuose attrici (Giulia Rea, Giulia Pomarici, Lucrezia Marzo, Sara Gaeta, Gloria Iaia, oltre alle due registe) che si susseguono in una cornice teatrale atipica: il sipario accarezza il classico palco frontale, ma lascia nell’ombra un secondo spazio scenico, laterale, illuminato di volta in volta dall’apparizione improvvisa di una di quelle voci.
Così il monologo originale non è più pensato come un flusso di coscienza e di parole per bocca di un solo protagonista uomo, ma assume i contorni di un universo femminile, che tuttavia non smette di indossare i panni e il linguaggio colloquiale del trombettista narratore. Le attrici si rivolgono allo spettatore con lo stesso fare quotidiano, informale, a tratti anche rozzo, di chi racconta una storia ad un vecchio amico, nel rispetto assoluto del testo e delle intenzioni dell’autore.
Sullo sfondo di una nave che ora è una lussuosa sala da ballo, ora una carcassa di metallo e ricordi, prende vita un racconto che non segue l’ordine cronologico né quello fissato dal suo autore, ma le curve imprevedibili della memoria, e si dipana nella realizzazione di sette quadri diversi, ognuno con una propria voce e sensibilità particolari: il ricordo nostalgico di un passato lontano, la parentesi cabarettistica della Atlantic band, la leggenda della nascita di T. D. Lemon, la paura primordiale di finire nel mare in tempesta, il duello (più che mai “acceso”) con l’inventore del jazz, la decisione inaspettata di scendere a terra, il ritorno al presente con lo spettro della nave e della guerra.
Unici personaggi maschili a calcare il palco sono il bravissimo pianista (Theo Allegretti), presenza silenziosa e necessaria, che risponde agli interventi delle narratrici col tintinnio di note parlanti; e quel T. D. Lemon (interpretato da Giacomo Di Biasio), sempre evocato nel racconto del trombettista, e che solo alla fine farà sentire la sua autentica voce. A lui è affidata la conclusione dell’opera, un ultimo monologo straziante e a tratti grottesco, che racchiude il senso dell’intera sua esistenza, di quei pochi gradini ad un passo dalla terraferma, dell’atavica paura di spingersi oltre i confini di quello che vediamo.
Filo rosso che tiene uniti questi scorci di memoria è lei, la Musica, rigorosamente dal vivo, sottofondo costante, avvolte invadente, di cui la voce, prima padrona, diventa amante, schiava, compagna, in una danza che trascina lo spettatore altrove... Altrove, sì, “ma quella storia, no... quella sta ancora qui, limpida e inspiegabile, come solo era la musica quando, in mezzo all’oceano, la suonava il pianoforte magico di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento.”
E il pianoforte è proprio lì, su quel palco, vivo come le dita che lo animano, reale come quelle scale che appaiono e scompaiono, unico punto di contatto tra terraferma e Oceano, segno di un passato non piu’ recuperabile e di un futuro destinato ad infrangersi... contro le onde di un mare rabbioso, contro quella nave, ormai vedova di un lusso lontano, contro quel mondo, fatto di 88 tasti, che trova il suo equilibrio solo sull’Oceano.
Roberta Madonna
17 maggio 2017