Recensione dello spettacolo G.U.F.O. in scena al Teatro dell'Orologio il 13 e il 16 gennaio 2016
«There’s a starman waiting in the sky
He’d like to come and meet us
But he thinks he’d blow our minds»
(Starman, David Bowie)
Siete mai stati rapiti da un alieno? Sicuri? Sicuri sicuri? Magari sembravano gufi e non ve ne siete accorti.
Luca Ruocco e Ivan Talarico, in arte DoppioSenso Unico, vi aiuteranno a ricordare meglio con GU.F.O., spettacolo incluso nella trilogia “Niente di nuovo sotto il suolo” (composto anche da Operamolla e La variante E.K.) in scena dal 12 al 17 gennaio al Teatro dell'Orologio.
Attraverso una serie di sketch più o meno corti, dal ritmo serratissimo e rapido scandito da brevi pause di buio, si indagano alternativamente i comportamenti e le psicologie di due coppie di esseri – due extraterrestri alla conquista della Terra, e due coniugi gufi, Luigino e Marisa – forse reali, forse sogni, o forse ricordi di quella vittima di rapimento alieno, che sporadicamente appare, sotto ipnosi insieme all'ombra del suo psichiatra, come trait d'union tra le varie parti dello spettacolo.
Siamo dalle parti dell'universo (sub)culturale delle alien abductions, delle testimonianze delle vittime e delle più varie e fantasiose interpretazioni degli alieni come demoni, o angeli, o benefattori dell'umanità, o crudeli colonizzatori (la cui visita è associata da alcune vittime alla figura del gufo).
Da una parte dunque gli alieni, conquistatori, rapiscono i terrestri per studiarli e metterne a nudo le paure, i talloni d'Achille. E i rapiti sono gli spettatori, rapiti appunto con un semplice retino da pesca, costretti a passare dall'altra parte della barricata e trasformarsi in attori, o meglio diventare strumenti attoriali, essi stessi: le lusinghe, la famiglia, l'educazione scolastica, la vigliaccheria, sono solo alcune delle debolezze per cui è così facile rapirli.
In altri casi gli umani sotto la lente di ingrandimento sono i grandi della storia – i cui volti sono rappresentati da buffe maschere ingrandite da illustrazioni in bianco e nero – ma le cui intuizioni e scoperte si scoprono essere state suggerite dagli stessi alieni, e i paradossi impazzano: da un Newton ignaro sul perché la mela sia caduta, a un Marx difensore del modello di vita capitalista, da un Gesù che non sa fare i miracoli, a un Darwin creazionista fervente ma confuso, convinto che l'uomo sia stato creato dalla scimmia (della quale assisteremo a una gustosa diatriba con Dio in persona).
Dall'altra parte la coppia di gufi (più lo spettro dell'amante gufo Gianni Barba), imprigionati nella loro esistenza apatica, introversa, immobile, gioca con altri tipi di debolezze cui gli umani sono inclini – come la depressione o la passività, ma sempre rimanendo su un registro comico leggero.
La parte degli alieni è di certo il piatto forte dello spettacolo, e appare più articolata, robusta e innovativa, mentre i gufi – seppure godibilissimi e visivamente irresistibili con quei bei mascheroni piumati di Tiziana Tassinari – sembrerebbero seguire uno schema comico più lineare e tradizionale, utile però a pausare il passo, altrimenti troppo frenetico.
Tra i padrini della forza comica di GU.F.O. si possono forse identificare: in parte Rezza e Mastrella, sia nell'uso della scenografia (una struttura a parallelepipedo chiusa da una tenda, il cui uso è reinventato dagli attori scena per scena), sia in un certo cinismo allucinato (qui però molto stemperato e reso più dolce); forse un pizzico di Fratelli Marx; ma soprattutto i Monthy Python di Flying Circus, con i quali Ruocco e Talarico sembrano condividere quella comicità surreale e non-sense, verbale e visionaria, così ricca di sketch, trovate inverosimili, personaggi paradossali e scherzi linguistici. Ed è probabilmente attraverso questi ultimi che sono mediate quelle tracce di Teatro dell'assurdo riscontrabili qui e là (soprattutto echi della Cantatrice Calva di Ionesco).
Alla fine di questo piccolo circo di alieni e gufi, non sapremo di certo la verità sui rapimenti alieni, ma vedremo gli umani – noi stessi – con occhi diversi, distaccati, forse più critici e attenti. Proprio come il gufo Luigino, distaccandosi pirandellianiamente dal suo personaggio in un riuscitissimo momento di metateatro, mette in dubbio il suo essere veramente gufo, ma solo il tempo di un attimo, prima di tornare alla confortevole sicurezza della sua realtà.
Mario Finazzi
15 gennaio 2016