Martedì, 26 Novembre 2024
$ £

Tribes, regole e tabù di una tribù

Recensione dello spettacolo Tribes, in scena al teatro Eliseo dal 6 al 24 gennaio 2016

Ogni tribù ha le sue regole, i suoi riti e i suoi modi di rapportarsi, sia all’interno di esse che con il mondo esterno. Ma, soprattutto, ogni tribù che si rispetti affila metodicamente le proprie caratteristiche armi. Nella famiglia presentata in “Tribes”, opera frizzante, dinamica e mai scontata della drammaturga britannica Nina Raine, presentata nella versione italiana dalla regista Elena Sbardella, presso il teatro Piccolo Eliseo, le armi più affilate sono, senza ombra di dubbio, le parole ed il linguaggio.

A colpi di sferzante sarcasmo, ostentato intellettualismo, vituperato cinismo portato ripetutamente ai limiti estremi della propria massima espressione, si gioca e si lotta, all’interno di questa particolare tribù – una famiglia contemporanea inglese, tanto colta quanto disfunzionale nei rapporti umani anche tra i componenti stessi – a colpi di langue e parole (di Desaussuriana memoria) e la comunicazione verbale che intercorre all’interno di essa sembra essere un vero e proprio banco di prova e di esame, sul quale tentare di sviscerare ed atomizzare a suon di battute sarcastiche, ironia intelligente e talvolta molto politically (in)correct, lo smisurato e talvolta arrogante ego dei protagonisti.

Ma non è tutto qui, anzi, non è solo tutto qui, in quanto l’ingranaggio fondamentale di questa brillante tragicommedia scatta immediatamente, quando all’interno della suddetta famiglia, della tribù in questione viene inserito dalla geniale autrice britannica, l’elemento di rottura del meccanismo e dell’equilibrio così perfettamente imperfetto sul quale essa, seppur sempre in bilico, riesce a sopravvivere: uno dei tre figli, infatti, è sordo dalla nascita…e il paradosso è servito. La parola, dunque, o meglio un tipo di parola pomposa, eclettica e che, malleabile, vaga e viaggia da concetto a concetto, fuoriuscendo dalle menti laboriose e concettuali dei quattro normodotati (un padre - Stefano Santospago - ex insegnante e scrittore, nonché critico letterario e critico, praticamente, di tutto; una madre - Ludovica Modugno - aspirante scrittrice alle prese con un romanzo giallo e con un rapporto matrimoniale faticoso e, a tratti un po’ logoro; due fratelli maggiori - Barbara Giordano e Luchino Giordana - in continua competizioni intellettuale e artistica tra di loro, alla ricerca di una vocazione definitiva e con alle spalle una schiera di relazioni sentimentali che mai hanno passato il setaccio e il giudizio familiare) messa di fronte ad una seconda tribù, quella dei non udenti, il muro e l’ostacolo massimo per dei narcisistici demiurghi del linguaggio.

Una storia, quella di Tribes , che riceve un secondo scossone in termini di trama quando Billy, il figlio sordo (delicatamente e perfettamente interpretato da Federico D’Andrea, attore realmente non udente) si allontana dalla logica del proprio nucleo man mano che sviluppa un suo rapporto umano e sentimentale profondo con Sylvia (Alice Spisa) una ragazza nata da genitori sordi, destinata a perdere progressivamente l'udito, depositaria della lingua dei segni. La ricerca eccessiva della non omologazione porterà Billy, che è cresciuto con il rifiuto della tendenza a rinchiudersi nell’universo dei sordi, considerato dalla famiglia una sorta di tribù, a rivedere la sua posizione comunicando solo con il linguaggio dei gesti dapprima solo con Sylvia e poi anche con tutti i familiari, presi in controtempo e di sorpresa dal repentino cambio di visione del loro terzo figlio. 

La macchina teatrale, così può ufficialmente prendere il via e, una volta ben oliati gli ingranaggi a suon di musica classica da assorbire nel buio della sala, nell’ordine e con lo scopo di azzerare totalmente i sensi, si sviluppa rimbalzando da uno stato all’altro, da un livello all’altro della comunicazione facendo perno sul detto, il non detto, il letto, l’ascoltato e il non udito. Il rapporto tra testo e sottotesto, la partita che si gioca tra queste due entità che diventano, pian piano i veri deus ex machina della narrazione scenica, è evidenziato da alcune brillanti scelte della regista Elena Sbardella come quelle di proiettare i dialoghi su uno schermo al centro della scena e di affidare alla musica l’arduo compito di misurare i tempi e condensare tutte le emozioni e le sensazioni che ogni dialogo, ogni confronto, ogni battuta pregna di umorismo e di tabù verbali sfatati, lascia nei due atti di cui l’opera si compone nelle menti degli spettatori.

Un plauso va, sicuramente, alla compagnia la quale, davvero molto affiatata, ha saputo concretizzare al meglio e portare in scena con loquace (è il caso di dirlo) naturalezza tutto un raffinato e ben intricato lavoro di idiosincrasie, confronti comunicativi che danzavano tra il grottesco e il tragicomico, di alterazioni espressive, di feroci incontri e scontri tra codici verbali privi di auto-ascolto e abilità linguistiche tradotte solo in alfabeto dei segni, il tutto sotto la magistrale guida della regista Elena Sbardella. Infine una nota sui sopra-titoli utilizzati durante la pièce, un tocco di genuina genialità servito a garantire che “Tribes” rappresenti due facce dello stesso specchio, quello che si pone al centro tra i punti di ascolto e di non ascolto, tra l’udito e il non udito, tra il detto e il… non ascoltato.

 

Federico Cirillo

10 gennaio 2016

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

Newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter per scoprire gli sconti sugli spettacoli teatrali riservati ai nostri lettori