Recensione de La fanciulla con la cesta di frutta in scena al teatro Sala Uno dal 4 al 6 dicembre 2015
Questo sabato un gremito pubblico prende posto al teatro Sala Uno, così numeroso che nonostante il largo anticipo con cui ci si possa presentare alle rappresentazioni, si trova qualche difficoltà nel sedersi in prima fila.
Eppure è possibile e a conti fatti ne vale davvero l'impegno.
Lì ad attenderci il primo quadro animato.
Si perchè il tema dello spettacolo sono i dipinti o “i loro autori”? come sottolineano più e più volte durante il corso della messinscena.
Probabilmente lo stesso quesito sorge all'autore del testo drammaturgico, Francesco Colombo, considerando che spesso questa identificazione tra il nome del suo artista e il dipinto è forzata dal modo in cui si è soliti indicarli e quindi “Fanciullo con canestro di frutta in testa” è un Caravaggio e così per qualsiasi altra opera.
Lo stesso però varrebbe per il soggetto che ha ispirato la mano del pittore, così sempre il regista pone l'attenzione sul modello che ha prestato il suo servizio per essere ritratto e quindi la natura dell'opera si fa sempre più controversa.
Il quadro comincia ad avere una moltitudine di potenziali identità: il pittore, il soggetto che lo ha ispirato e quello rappresentato.
Non si tratta però di un trattato in psicologia sui disturbi della personalità che ha in potenza un quadro ma di uno spettacolo scritto e inscenato con sagace ironia.
I dipinti sono i suoi personaggi. Così il sopracitato “Fanciullo con canestro...” è in realtà Marco Celli, lodevole non solo per la resistenza con cui immobile accoglie il pubblico, all'inizio della rappresentazione, ma anche e soprattutto per l'esilarante esasperazione interpretativa con cui veste i panni del doppio Caravaggio/Mario Minniti.
Poi abbiamo Adalgisa Manfrida che interpreta uno dei due angeli in Le Stigmate di Minniti e la prima ballerina per Degas che con energia e leggerezza incarna l'essere femminile manifestando con estrema spontaneità la natura comica delle più intime necessità umane.
E ancora l'altro personaggio femminile interpretato da Grazia Capraro, capace di trasformarsi ora con muta eloquenza nei panni del secondo angelo poi con tragica inquietudine in Ophelia/Elizabeth Siddal, misurando abilmente l'intensità dei movimenti e delle espressioni.
Quindi Michele Ragno negli ambiziosi ruoli di due creatori per antonomasia Gesù e Vincent Van Gogh ma che con straordinaria semplicità appaiono quasi come maschere della Commedia dell'arte, riconoscibili per caratteristiche ed entusiasmanti per il modo grottesco con cui raggiungono il parossismo dei personaggi incarnati.
Non dimentichiamo il regista ed autore e dello spettacolo che con abilità ha studiato i tempi di ciascuno riducendo per la rappresentazione gli spazi d'azione in maniera ritmata e mai assolutistica per ciascuno degli interpreti.
Tutti si muovono e il dibattito intorno al tema risulta incalzante e coinvolgente per lo stesso pubblico che vi prende parte attiva essendo chiamato a rispondere dei quesiti e partecipando in prima persona con gli stessi attori.
Complessivamente ottima prova per attori e autori, soddisfazione per il pubblico ed il teatro che lo ha ospitato.
Solo il quesito iniziale non viene risolto, anzi adesso appare anche accresciuto:
E se l'autore dell'opera fosse anche il pubblico che ne ha apprezzato il risultato?
Silvia Doria
6 dicembre 2015