Recensione Gli uccelli migratori, in scena al Teatro dell'Orologio dal 12 al 15 novembre 2015
Si chiude con la prima nazionale de Gli uccelli migratori il secondo percorso monografico della stagione 2015/2016 del Teatro dell’Orologio, dedicato alla compagnia Teatrodilina.
L'idea di fondo da cui parte il lavoro che ha portato a Gli uccelli migratori è interessante, peccato che poi sia stata sviluppata in modo semplice e con una scelta registica e interpretativa da fiction televisiva che nel dipanarsi della trama a volte rasenta la telenovela.
Una donna rimasta incinta aspetta la nascita della sua bambina tornando alla casa della sua infanzia dove le fa compagnia il fratello professore di greco e latino, ideatore di improbabili app per smartphone, che da anni cerca di portare a compimento un romanzo che non finirà mai di scrivere.
Lo sconosciuto che l'ha messa incinta in una notte di disperazione (unico incontro della loro vita) è un ingegnere costruttore di ponti che rovina il rapporto consolidato da anni con la sua compagna per raggiungere lei e starle vicino e aiutarla anche economicamente ma la futura mamma pur avendolo contattato di persona non vuole in realtà nessun aiuto. Ciliegina sulla torta l'entrata in scena di un giovane ornitologo che la riporta a casa dopo che si è sentita male durante una passeggiata da sola nel bosco.
Donne nevrotiche in cerca di comprensione e protezione, ma che il loro orgoglio ferito (da cosa?) gli impedisce di cedere o accettare a prescindere e meno che mai di giungere a compromessi, che hanno a che fare con uomini troppo protettivi perché esageratamente insicuri di se stessi e in cerca a loro volta di un appiglio che gli permetta di rimanere saldi alla realtà di tutti giorni che spesso non capiscono.
Il ritratto di una società contemporanea letta su romanzi e racconti, vista al cinema e in televisione che fa sorgere un dubbio: Ci dipingono così perché siamo così o vogliono imporci, con la stereotipizzazione dei tipi, di essere così?
Scenografia essenziale, un tavolo centrale e un paio di sedie, interessante il modo di rendere i tronchi d'albero che vanno ad idealizzare un bosco che è anche metafora dell'inconscio dei personaggi in scena e del loro tentativo di fare luce sulle sue zone più oscure e al contempo luogo dove perdersi e trovare rifugio e guarigione dai dispiaceri e dalle ferite della vita di ogni giorno. Poco curato invece il disegno luci che risulta a tratti inesistente quando doppie e triple ombre vanno a sovrapporsi, fastidiosissime a livello estetico e per chi guarda, che sicuramente non sono state una scelta scenografica.
La prima parte indubbiamente più ritmata lascia il passo ad una seconda parte più lenta che si dilunga a fatica fino a giungere ad un finale che lascia abbastanza perplessi.
Calato il sipario qualcuno tra le file del pubblico ha sarcasticamente chiesto il bis, qualcun'altro invece l'ha chiesto sul serio... Un atto di puro sadomasochismo.
Fabio Montemurro
16 novembre 2015