Recensione dello spettacolo Cent'anni in due, al teatro dei Cociatori dal 27 ottobre al 1 novembre 2015
Iniziamo da una lavanderia: una di quelle tintorie vecchia maniera, di quelle che trovi ancora, indirizzando bene l'occhio tra le antiche strade di Roma, nel centro storico della capitale; insomma la tipica "lavanderia della nonna", l'attività di famiglia che ancora resiste e che, di generazione in generazione, si tramanda e sopravvive anche all'epoca dei "coin-wash", dei lavaggi self-service e si scaglia, a velocità di risciacquo, rammendo a mano e stiratura, nella società 2.0 che, intorno ad essa, con moto centrifugo raddoppiato, corre a suon di fibra ottica e 100 mega.
Ed è proprio da qui che nasce, si sviluppa e muore, l'agrodolce commedia "Cent'anni in due", piece teatrale andata in scena presso il Teatro dei Conciatori di Roma, con la regia di Andrea Saraceni che ha proposto un testo dal "taglio contemporaneo" - come riporta anche lo slogan dello stabile stesso - fresco e che, al tempo stesso, pone accenti e accenni di riflessione su due tematiche delicate della contemporanea e sì sfaccettata società: l'omosessualità e il lavoro.
Tra coming out sinceri e mai nascosti e sofferte relazioni generazionali che ne conseguono tra genitori e figli e al centro dell'altalena che trova i suoi punti Zenith e Nadir nella "meritocrazia" e nella "raccomandazione" all'interno dell'universo lavorativo attuale, si stende indelebile, inflessibile e solido il filo del rapporto schietto e autentico tra nonna Pierina - una bravissima Lucia Batassa - e il nipote Graziano - il giovanissimo Giustiniano Alpi - nei panni di un brillante neolaureato in filosofia con il massimo dei voti che, dichiaratamente e fieramente omosessuale, passa il suo tempo tra la lavanderia della nonna, appunto e la spasmodica ricerca di un'occupazione "meritocratica", barcamenandosi, intanto, tra annunci di impiego fasulli e così illusori da disilludere e un momentaneo lavoro da dj nelle discoteche dell'Urbe. Di fronte a quel quadro e quello specchio nel quale innumerevoli giovani possono e tranquillamente si riflettono, loro malgrado, staziona, appunto, nonna Pierina che, invece, tra raccomandazioni old style, spintarelle e orazioni in sogno a Santa Brigida, alla soglia degli ottant'anni, fa di tutto per trovare lavoro al nipote, in quella che diventa una messa in scena ironica, spigliata e anche sfacciata dei veri drammi contemporanei dell'Italia dello #staisereno e del Job Act.
Così, tra le improponibili proposte di lavoro che girano sulla rete atte ad ingabbiare piuttosto che ad occupare, tra i tentativi della nonna di "sistemare" il nipote e tra le occasioni tangibili e concrete che l'estero richiamo offre, viene a delinearsi la trama dello spettacolo. Trama e storia arricchita e completata delicatamente e con toni chiaroscuri con un retrogusto amaro e dall'acido respiro di mesta realtà, dai racconti, sottoforma di soliloqui, dei quattro attori presenti sul palco: i due protagonisti, appunto e i due clienti della lavanderia, la compagna di un senatore, aspirante attrice che racconta il dramma della violenza sessuale, figlia perversa e degenere di un do ut des deviato e meschino e un imprenditore, anch'egli omosessuale che narra una vicenda legata alla stupidità e all'ignoranza dell'omobullismo (così tristemente ricorrente nella capitale).
Seppur rapido, semplice e con tinte pastello chiaro alimentate dall'ironia che aleggia, il tutto assume sfumature ambigue, opache, drammatiche e un po' fosche, così come l'epilogo, dal tipico sapore amaro di cruda realtà.
Federico Cirillo
2 novembre 2015