Recensione dello spettacolo Effimera di Stefano Benni in scena al Teatro Argot Studio di Roma dal 6 al 18 ottobre 2015
«Io voglio più vita, padre!» (Roy Batty in Blade Runner)
Stando alla sua origine etimologica, “effimero” significa letteralmente “che dura un giorno solo”. Ed un giorno solo dura infatti la vita di Effimera, nuovo personaggio scaturito dalla fantasia visionaria dello scrittore Stefano Benni per dar voce a un suo monologo inedito.
Tutto inizia di notte, con un bozzolo da cui nasce, alle prime luci aurorali, una farfalla, che è anche una fata, e probabilmente anche un'elfa. Lo spazio è un giardino, pieno di enormi fiori coloratissimi, che riempie il piccolo palco dell'Argot.
La voce e il corpo sono quelli della rossissima e dolce Dacia D'Acunto, che per circa un'ora domina verbalmente e fisicamente il testo di Benni, senza alcun calo di ritmo o cedimento: merito probabilmente anche della grande intesa professionale tra i due, sviluppata durante l'intensa collaborazione degli ultimi tempi. In questo caso Benni è anche regista, insieme a Viviana Dominici.
A metà tra Campanellino e una Peter Pan al femminile, si segue dunque lo svolgersi della brevissima vita di Effimera dall'alba al tramonto attraverso le varie fasi della sua crescita: la mattina e l'infanzia, in cui bambina impertinente e petulante prende contatto con il mondo e con i suoi creatori; il pomeriggio come età della maturità, e così via fino alla vecchiaia, momento crepuscolare e elegiaco dei ricordi e della malinconia («l'ora che volge al disio» direbbe Dante). E in mezzo tutte le fasi dell'esistenza, follemente concentrate, la consapevolezza del male, l'illusione e la delusione dell'amore, la sessualità, l'apprendimento delle regole sociali e la naturale ribellione ad esse, la solitudine, la fuga in cerca di altro.
Benni dissemina lungo il suo testo riferimenti al mondo attuale, critiche sociali e politiche appena accennate che tuttavia fanno trasparire il suo pensiero – sull'ipocrisia dei modelli di vita imposti dalla società occidentale, ad esempio, ma anche sul gender o su Dio o sull'eutanasia – ma riesce a tenere per tutto il tempo un registro leggero e pieno di battute e giochi di parole più o meno brillanti (la cui riuscita deve comunque molto alla ottima interpretazione della D'Acunto). A questo registro si contrappuntano però alcuni momenti, forse i più efficaci, in cui il tono si fa improvvisamente drammatico, spietato, amaro, prendendo forza proprio dal contrasto con le parti più giocose. È in questi frangenti che Effimera cresce, e cioè prende coscienza del proprio ineluttabile destino.
E noi con lei. Perché alla fine effimeri lo sono i fiori e le farfalle, ma lo siamo soprattutto noi, e ce lo siamo sempre raccontati, dalle vanitas secentesche a Blade Runner, perché cos'è Effimera se non una versione fantasy del replicante Roy Batty?
Noi umani abbiamo più tempo per vivere, eppure sempre inaccettabilmente limitato, ma è proprio questo limite che paradossalmente rende ogni secondo dell'esistenza di ciascuno di noi così prezioso e così tragicamente bello. E se non l'avessimo ancora capito, ce lo ricorda anche Benni.
Mario Finazzi
11 ottobre 2015