Recensione dello spettacolo Miti d’acqua, andato in scena il 27 Giugno 2018 dal Teatro Biblioteca Quarticciolo al Parco Alessandrino di Roma
Nonostante il freddo intorpidisca la pelle, la brezza sconvolga le pettinature cotonate dell’ultimo minuto, la terra bagnata di umidità serale sporchi i piedi e le mani, quando una storia e un canto riescono, con sincera e genuina semplicità, a distrarre le affaticate menti di una platea accomodata su un prato, allora è lì che il teatro esiste davvero.
Il lavoro, spronato dall’indifferibile esigenza a disintossicarsi dal presente, che la voce ipnotica di Sista Bramini e la musica anestetizzante di Camilla Dell’Agnola portano a compimento, propaga infiniti riverberi di un nostalgico passato, che urtano con dirompenza contro i ritmi eccitati e frenetici di una città che silenziosamente viene lasciata alle spalle, mentre dinanzi le fronde degli alberi si aprono come tende di un sipario, lasciando intravedere il magico spettacolo del tempo che rallenta, della luna che sorge, del respiro che cessa di affannarsi e comincia realmente ad assaporare il sapore autentico dell’aria. L’effetto edificante che la narrazione provoca sul pubblico è a lento rilascio, giacché persiste anche dopo che i cellulari riprendono a squillare impazientemente e le luci artificiali delle insegne luminose seccano qualche residuo di lacrima rimasta incastrata in un occhio. Si ha come il timore di applaudire persino, quando, al termine, sembra di rinvenire da un sonno appagante e così necessariamente poco ingombro di pensieri fatui e soffocanti. Quel convenzionale battere una mano contro l’altra, per un attimo, pare essere l’atto più distruttivo che si possa commettere e a molti è mancato il coraggio di farsi giustizieri di quel delicato filo di silenzio ed empatia che, in poco e con poco, ha irrimediabilmente legato tutti, valicando i confini dell’estraneità.
Il testo, sapientemente guidato dalle note pizzicate di una viola che si incastona con grazia tra le parole del mito, si nutre e si impreziosisce della relazione e della contaminazione con i colori, le forme, gli odori e i suoni della natura stessa, che nella sua continua ed imprevedibile trasformazione dilata l’esperienza di chi ne è privilegiato testimone. La permanente fusione di realtà naturale e realtà artistica genera uno spazio scenico palpitante, che vive delle reazioni dell’ambiente e in cui il soffio improvviso del vento, i sinuosi movimenti degli alberi, l’accurata regia della notte che abilmente manovra la luce tra le foglie partecipano attivamente a quel che accade, rafforzando l’intensa connessione con un luogo che non è più soltanto un contenitore, un allestimento, un passivo palcoscenico ma un compagno di scena che agisce a fianco delle attrici e presenzia assieme agli spettatori. I sensi, normalmente occlusi in un labirintico spazio di immagini, stimoli e rumori che asfissiano, con la loro febbrile velocità, la bellezza della percezione totale e autentica, arrivano così a godere di un improvvisa, riscoperta libertà, che scava un solco per il suo passaggio proprio come fosse un impetuoso e trascinante fiume in piena.
La narrazione, che recupera dalle tradizioni la dimensione rurale e primitiva del mito e della fiaba popolare, vive indispensabilmente anche dell’integrazione fra musica e canto, che intensifica l’apertura verso l’ambiente e fa riaffiorare una memoria perduta che rimbomba nel ventre.
L’opera di accorpamento di teatro e natura che O Thiasos ha maternamente adottato attinge alla sostanza linfatica ed organica del repertorio mitico, dove il potere dell’oralità rivive e in cui si risana quell’antica, sbiadita icona dell’ammaliante cantastorie che istruisce e intrattiene, che incanta e ammonisce. Nel racconto si svela una sacrale intimità, una selvaggia poesia, e per quanto queste ci sembrino essere oggi nient’altro che echi lontani e alieni, in realtà sono semplicemente nascoste in qualche buio e profondo anfratto della nostra parvenza.
La pregevole azione scenica, in cui si intrecciano frammenti di storie cucite assieme, assonanze polifoniche e arcaiche, dove corpo e voce si sposano in un connubio armonioso, rende “Miti d’acqua” non un semplice spettacolo, ma un avvenimento unico, che assorbe quanto di estemporaneo la natura offre, e che consente allo spettatore un viaggio catartico e rinvigorente, pacatamente illuminato da caldi fuochi oracolari, che oggi più che mai urla con famelica urgenza il bisogno di avverarsi.
Giuditta Maselli
28 giugno 2018