Recensione dello spettacolo “White Rabbit, Red Rabbit”, andato in scena il 16 Aprile presso il Teatro Angelo Mai Altrove di Roma
Nassim Soleimanpour è iraniano.
Nassim Soleimanpour non ha il passaporto.
Nassim Soleimanpour non può lasciare il proprio paese, non può viaggiare, non può spostarsi.
Al suo posto, però, ci sono le storie; quelle sì che possono viaggiare, e non solo non necessitano di documenti, perché alle storie di Nassim serve ben poco.
“White Rabbit, Red Rabbit” nasce da questo bisogno e si configura come un’esperienza destrutturante, che quasi profana con ghigno di sfida le rocciose fondamenta del teatro, invertendo i ruoli con ambiguità controllata e lanciando nel vuoto i presenti, dopo averli saldamente assicurati alle cinture di sicurezza.
È con queste premesse che si consuma l’estemporaneità delle parole di Nassim Soleimanpour, la cui voce, prestatasi a diversi interpreti, è rimbombata, per la prima ed ultima volta, nelle corde vocali di Vinicio Marchioni, che con sagace ironia si è adattato al suo ruolo di cavia, per il divertimento e la “sadica” curiosità dell’autore e dello spettatore. Eppure, malgrado l’inevitabile presenza di un corpo, è una busta, bianca, l’autentica protagonista dell’attenzione dello sguardo. Il suo contenuto sembra manovrato in diretta, tanto è sincronico e imprevisto, e questa immediatezza del testo, della sua interpretazione, non può che causare un coinvolgimento che esiste e vive comunque, oltre l’interazione, oltre i mattoni sbriciolati della quarta parete, oltre il contatto, reale e autentico.
Proprio per questo, l’attore non è più tale perché è innocuo, nudo e solo, facile preda del giudizio o dell’empatia del pubblico; non dispone di uno studio, di un lavoro, di un processo dietro al quale proteggersi e nascondersi; è necessario in quanto essere umano e questo è quanto basta a smontare la gerarchia, a deporre gli orpelli per applaudire la materia pura, spogliata del ruolo di divo. Qui dimora la trasgressione, accettata e compiuta sia nella forma che nell’oggetto, che si sgroviglia sapientemente tra contenuti tanto metaforici quanto, per questo, immancabilmente accurati e puntuali. L’allegorica maniera di fare riferimento ai concetti, di puntualizzare la propria opinione senza, però, cadere mai nella didascalia sentenziosa e moraleggiante, non impedisce all’autore di centrare il bersaglio, anzi potenzia la forza e l’efficacia di un testo intelligente e avveduto, di questo gioco sociologico che avviene senza che il pubblico se ne accorga immediatamente e attraverso il quale Soleimanpour non manca di raccontarsi.
Si consolida, così, una schietta simbiosi, frutto di un dare e un avere che aggancia tutti in una rete umana e solidale, dove ciascuno si sente a suo modo responsabile, partecipe, coinvolto.
È l’urgenza di intervenire, e questo è quanto di più impressionante e rivoluzionario possa fare il teatro.
Giuditta Maselli
17 aprile 2018