Recensione dello spettacolo Se la terra trema, andato in scena al teatro Sala Uno Teatro di Roma, dall'8 al 18 marzo 2018
La giornalista, autrice e regista teatrale Maria Inversi, nei numerosi anni di attività dedicati alla scrittura e alla regia ha sempre narrato storie di donne, più note come Sabina Spierleine o Maria Zambrano o non note, ma del femminile nella storia, in guerra o a teatro si è sempre occupata con grandi riconoscimento di critica e di pubblico. In questo spettacolo, di cui la Inversi è autrice e regista, è nuovamente una donna la protagonista, a cui presta il volto Marinè Galstyan: il femminile è al centro di una storia/non storia.
In una scenografia quasi impalpabile, che rievoca un bosco come si intuisce dal pavimento di foglie interrotto solo da qualche mattone sporco di sangue, si muove una ragazza che si risveglia dopo un evento disastroso, ma nulla è chiaro allo spettatore inizialmente disorientato. Non si sa chi sia la donna in sala, da dove viene e da quale evento scappa i suoi discorsi confusi non chiariscono le idee. Il monologo prosegue senza un ordine apparente con ricordi sulla sua vita familiare, sui suoi interessi prima della vicenda tragica non meglio specificata, con momenti in cui canta o danza per ritrovare la voglia di vivere . Spesso inizia a parlare altre lingue, inglese, francese, tedesco, armeno, non chiarendo la sua origine. Pensieri sul senso della vita si interpongono tra i ricordi, pensieri a volte di amore a volte di speranza. Tuttavia la confusione ci arriva come prima impressione sullo spettacolo.
Il monologo di circa un’ora sembra disorganico e non appare subito chiaro l’intento dell’opera. La voluta indeterminatezza dei luoghi, dei tempi, delle situazioni, del personaggio, alla fine poi non danno punti di riferimento allo spettatore. L’obiettivo della Inversi è creare un personaggio che incarni una donna che potrebbe essere scappata da una guerra, da un terremoto o essere un’emigrata dei barconi, ma tutto questo non si evince né dal testo, né dal lavoro fatto sul personaggio. Il testo è eccessivamente elaborato, virtuosistico, dannunziano ed è poco realistico che una profuga possa parlare così. Questa donna volutamente senza identità che però, proprio per questo non trasmette un vissuto e un dolore autentico, è stata eccessivamente caratterizzata da una mimica e da una voce altrettanto impostata e virtuosistica. Sembra di trovarsi di fronte più ad un esercizio di stile che al racconto di un dolore profondo universale che potrebbe appartenere ad ogni persona che vive una condizione di disagio, di sofferenza, di allontanamento dal proprio nucleo familiare, come era nell’intento dell’autrice. Dunque il risultato appare un po’ al di sotto delle aspettative sulla pièce che sicuramente si prefigge di trasmettere un messaggio di sofferenza e di speranza universale, ma che nell’allestimento dello spettacolo non arriva.
Mena Zarrelli
19 marzo 2018