Recensione dello spettacolo di improvvisazione teatrale “Linea di Confine” della Compagnia “Fermenti”, andato in scena al Teatro Duse di Roma nei giorni 19, 20 e 21 gennaio.
“Linea di Confine” racconta le vicende di esseri umani, con problemi umani, che improvvisamente si ritrovano a vivere esperienze fuori dall’ordinario a causa delle loro azioni o del destino. In questo aspetto i personaggi appaiono, quasi, come eroi tardo-romantici, costretti a scontrarsi con una negatività sociale ed esistenziale che li porta inevitabilmente verso una tragica sorte. La realtà è un palcoscenico corrotto dal quale fuggire, ma quella parallela, a primo impatto affascinante, è forse ancor più sporca della prima e subdolamente svuota gli animi dei suoi moti più intimi e profondi, sviscerando l’umana coscienza.
La potenza dell’ignoto, del “mostro” che presumibilmente si cela sotto la fitta coltre di nebbia, scatena la reale identità dei personaggi che senza alcuno scrupolo gettano la piacevole maschera che, sino a pochi instanti prima, avevano sfoggiato con ostentata vanità, per abbandonarsi ad un animalesco inseguimento per la sopravvivenza. Ognuno tenta di definire il proprio spazio invadendo quello degli altri, barcamenandosi in un’agitata giostra di intrighi, segreti e amare verità.
Il contesto accattivante, da un lato cosparso di ammiccamenti vintage ad una generazione impolverata dal tempo, dall’altro proiettato in una fantascienza non tanto distante da una possibile, nuova realtà, aiuta a conferire ad ogni singola storia un’efficacia drammatica disarmante, che gli interpreti concorrono a generare attraverso la costruzione di personaggi vividi e consistenti. Ogni dettaglio impreziosisce questo lavoro collettivo ad orologeria, che nel momento stesso in cui comincia a muovere i suoi primi passi, conta già i minuti che mancano alla propria scadenza. Questa sensazione di precarietà, distintiva dell’improvvisazione teatrale, è esaltante, toglie il fiato ad ogni minuto che passa e si propaga come adrenalina purissima, privilegiando lo spettatore della possibilità di assistere a qualcosa di davvero irripetibile.
Ogni sentimento è estemporaneo; gesti, sguardi, parole sono lo spontaneo risultato di un’ispirazione che è il pubblico stesso a fare agli attori, rompendo le convenzioni messe abitualmente in atto dal teatro di prosa e portando in dono gli incipit necessari per dar vita ad un viaggio onirico e surreale che, attore e spettatore, compongono in modo collettivo quasi rituale.
I segmenti all’interno delle trame oscillano tra l’ironia paradossale e l’ansia terrificante, spiazzando ulteriormente con la transizione dalla pacatezza ridondante della quotidianità al dramma. Delicatezza e brutalità si accompagnano e i cliché del melodramma romantico, su cui si incardinano inizialmente tutti gli episodi, assumono sul finale un valore di serietà che, a tratti, rende persino eccessivamente forzati alcuni passaggi logici, tanto nitidi da risultare estremamente percettibili.
Gli attori, nonché autori e registi insieme, si lasciano condurre dalla penna invisibile di un chimerico reporter che spia tacitamente le loro vite per poi imprimerle sui fogli ingialliti di una rivista d’altri tempi; frattanto imprimono ai loro personaggi quel di più, quell’interiorità che fa la gioia del pubblico, ricca di divagazioni e parentesi apparentemente gratuite ma che formano un nugolo di sottotesti che concorrono a perfezionare il tono e l’intensità della storia.
Ogni personaggio, infatti, nutre attentamente il coinvolgimento emotivo del pubblico, arricchendo di dettagli istantanei il proprio vissuto al fine di apparire il più verosimile possibile alla platea che lo fissa attonito. Drammaturgia e messa in scena si intrecciano, il pre e il post produzione si confondono irrimediabilmente, generando piccole storie confezionate come farfalle che restano in vita per pochi, intensi attimi, sino a quando il buio del teatro le riavvolge, lasciandone solo un ricordo, intrappolato nello sguardo luccicante degli spettatori.
Giuditta Maselli
21 gennaio 2018
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