Recensione dello spettacolo Lo straniero di Camus in scena al Teatro Studio Uno dal 9 al 19 novembre 2017
Romanzo incredibilmente moderno di Albert Camus, Lo straniero è una lettura che si presta a numerose – ma tutte impietose – interpretazioni: può essere inteso come una tragica apoteosi dell’atarassia, una condanna del lasciarsi vivere indifferentemente, la denuncia dell’ipocrisia di una società che tutela così tanto l’espressione dei sentimenti da condannare alla ghigliottina chi non li esprime come si dovrebbe.
Il suo protagonista non è nemmeno un antieroe ma un uomo molto pratico che desidera vivere secondo i propri principi, distanti da ciò che la massa si aspetta: non potendo occuparsi della madre per motivi di lavoro, la mette in un ospizio; non volendo vederne il cadavere, declina l’invito ad aprire la bara; non riconoscendo l’istituzione del matrimonio, trova indifferente lo sposarsi o meno; ritenendosi attaccato, si difende uccidendo; non credendo in Dio, sfugge al comodo confessarsi e pentirsi in punto di morte. Una persona coerente, tutto qui.
Lorenzo De Liberato decide di mettere in scena tutto questo, attenendosi strettamente al libro per quanto riguarda il punto di vista su ciò che accade: l’intera vicenda, infatti, sarà narrata in prima persona da Patrice Meursault (Marco Usai), che commenterà i momenti cruciali della sua parabola esistenziale. Gli altri (Tiziano Caputo, Agnese Fallongo, Mario Russo) sono solo comparse che, a vario titolo, lo condurranno alla pena capitale: il direttore dell'ospizio di Marengo, il portinaio dell'ospizio, quel decrepito fidanzatino della madre fuori tempo massimo di Perez, l’inutilmente devota Marie, il losco Raimondo Syntes, il festoso Masson, gli avvocati, un giudice e un prete. Nessuno di loro pare lasciare realmente un segno in Meursault, che solo verso la fine sembrerà risvegliarsi dal proprio torpore emotivo.
Lo straniero non è certamente un testo facile da tradurre a teatro e, probabilmente, si presta più a un reading. Forse è per questo che, nonostante le buone prove attoriali - tra cui spiccano il grande eclettismo di Tiziano Caputo e le doti vocali di Agnese Fallongo - c’è qualcosa che impedisce allo spettatore di immedesimarsi in ciò a cui sta assistendo. La sensazione è, in parte, dovuta all’interpretazione di Marco Usai: che racconti con fare così distaccato ciò che accade è sicuramente fedele al carattere del suo personaggio. Gli manca, però, quel guizzo che permetta a chi guardi di sentirsi realmente coinvolto. In più, non aiuta la scelta registica di alternare ai fatti una serie di brani popolari francesi arrangiati ed eseguiti dal vivo dagli stessi attori: il tentativo di collocare geograficamente e rendere più dinamica la narrazione ha, invece, come conseguenza il distrarre. Appare, poi, francamente incomprensibile l’accento del Sud Italia con cui si esprime spiccatamente Mario Russo nei panni di Raimondo Syntes: italianizzarne il nome senza giustificarne drammaturgicamente l’eventuale provenienza aggiunge un ulteriore elemento di disturbo alla credibilità della messinscena.
Ciò che alla fine rimane di questo Lo straniero di Camus è, dunque, la sensazione di aver assistito a un buon esercizio di stile: l’indifferenza andrebbe lasciata a Meursault, non dovrebbe mai toccare chi siede in sala.
Cristian Pandolfino
21 novembre 2017