Recensione dello spettacolo The Aliens in scena al Teatro Brancaccino dal 2 al 12 novembre 2017
Sarà per la vicinanza fisica tra attori e platea e forse anche per l’età media di spettatori e protagonisti in scena e ancor di più per l’iperrealismo con cui Silvio Peroni fa muovere e interagire gli attori sul palcoscenico che nell’opera di Annie Baker di alieno c’è solo quel 4 luglio, quella celebrazione così (giustamente) sentita in America e così (giustamente) poco significante in Italia. E poi forse ci sono loro, KJ, Jasper e Evan, i tre giovani protagonisti dai nomi un po’ troppo americaneggianti, a ricordarci che i “fatti” a cui assistiamo (in quasi due ore di spettacolo) non sono ambientati nella nostra Penisola. Per il resto, ci si sente subito a casa e KJ, Jasper e Evan potrebbero tranquillamente essere un Marco, un Giovanni e un Luca qualsiasi, in cui riconoscere un migliore amico, un cugino o un fratello che non ce l’ha fatta “ad attraversare la vita senza attriti o angosce”.
La loro è, infatti, la storia di due trentenni dei giorni nostri, un po’ scansafatiche e un po’ rassegnati, KJ (Giovanni Arezzo) e Jasper (Jacopo Venturiero), che passano le giornate nel patio di una caffetteria, dove si lasciano andare a ricordi, canzoni e pensieri astratti e dove si isolano dal resto del mondo, quel mondo conformista del quale non si sentono parte.
Sembrano conoscersi da una vita, una volta formavano addirittura una band. Che fine ha fatto quella band? Perché si è sciolta? Come si chiamava?
Uno di loro, Jasper, scrive romanzi e legge poesie. Perché non ne ha mai pubblicato uno?
L’altro, KJ, frequentava l’università e adesso si fa. Perché non si è mai laureato?
A queste e ad altre domande cerca di rispondere il pubblico in sala, anche grazie all’aiuto di Evan (Francesco Russo): il giovanissimo e neo assunto cameriere del bar, timido, ingenuo, insicuro e un po’ fuori dal mondo, che, dopo essere incappato nei due, prova dapprima a diventare loro amico, poi ad imparare a vivere.
Così, senza grossi cambi di scena (bastano un paio di cassette di plastica, una porta in orizzontale a fare da tavolo, un paio di sedie e una pattumiera) e senza vere e proprie azioni, tra una tazza di tè freddo e molte sigarette (durante tutto lo spettacolo gli attori fumano realmente), in un tempo quasi sospeso (quanti giorni sono passati?), riecheggiano quei versi di Bukowski, gli stessi proiettati, prima ancora che si accendessero le luci, sul muro che fa da fondale e da canovaccio. Ogni scena è, infatti, introdotta da un paio di righe che la descrivono, direttamente prese in prestito dal copione. Un accorgimento registico (insieme alle pause e ai silenzi e al lavoro attoriale), in grado di far entrare lo spettatore dentro al testo e alla scena. Per riflettere, al di là delle risate, sulla vita, sui rapporti importanti (come l’amicizia e l’amore), ma anche sulla morte.
Non che la bravura degli attori e la potenza del testo da soli non bastino per arrivare dritto alla testa e al cuore degli spettatori.
Concetta Prencipe
14 novembre 2017