Recensione dello spettacolo Bello di papà in scena al teatro Ambra Jovinelli dal 3 al 13 novembre 2016.
Ritorna dopo dieci anni dalla prima in scena lo spettacolo di Vincenzo Salemme al teatro Ambra Jovinelli. Alcuni degli attori coinvolti sono cambiati tra cui lo stesso Salemme che prima ne era il protagonista (ora solo regista)e al suo posto, un altrettanto sagace Biagio Izzo che riesce con le doti della mimica e della comicità partenopea a rappresentare lo stereotipo dell'uomo medio contemporaneo.
Si racconta di un dentista, Antonio, sulla cinquantina convivente con un avvenente ucraina, desiderosa di formare una famiglia e quindi di fare un bambino con lui.
Antonio però, è molto concentrato su se stesso e sulle mete raggiunte grazie al suo lavoro e sulla stabilità economica che gli garantisce una vita comoda ed abbastanza agiata.
Come, purtroppo però capita in una buona percentuale dei casi il possesso dei beni prende il sopravvento sull'animo delle persone e quindi la sua diventa un'ossessione, un'attenzione maniacale nel preservare lo status quo della sua casa e dei beni al suo interno, compresa la stessa compagna che controlla gelosamente in ogni movimento.
Il tutto per lui potrebbe appare facilmente gestibile tra quelle mura ma arriva l'elemento di rottura, Emilio, un suo caro amico caduto in profonda depressione che guidato da uno psicanalista affronta una terapia d'ipnosi con cui regredendo ad uno stato d'infanzia potrà ripercorrere delle tappe fondamentali del rapporto padre-figlio e risolvere così la sua nevrosi. Ma il problema è che per fare tutto questo occorre un padre ed il padre di Emilio è morto. E quindi chi sarà il padre putativo? Ma chiaramente il Peter Pan Antonio.
Da qui si sviluppano tutta una serie di gag e siparietti con battute d'immediato effetto. Non si può esimere dal sorridere ma i tempi sono ormai piuttosto maturi e la comicità che se ne trae risulta piuttosto prevedibile. Si potrebbe allora sperare in una riflessione dato che sembra sia uno degli obiettivi del regista. Risulta però assai complicato storicizzare come si poteva facilmente fare ai tempi del suo maestro De Filippo, il cui obiettivo era far sorridere amaramente della società a lui contemporanea. Infatti sembra trattare con troppa semplicità luoghi comuni dell'individuo e del rapporto esistente tra generazioni.
Infatti suona ormai anacronistica l'immagine del bambino che recita la poesia sulla sedia per fare bella mostra di se di fronte a parenti ed amici, in un'epoca come quella odierna in cui si lodano più le quantità di corsi di inglese, danza, karate, scherma, equitazione fino ad arrivare alla fisica quantistica a cui vengono iscritti i bambini. Ancora più paradossale pensare che l'atteggiamento di ostilità che si manifesta nell'età adolescenziale possa risolversi con sbraiti da parte del genitore quando oggi probabilmente avrebbe subito contattato una schiera di psicologi ed assistenti sociali per risolvere il caso, ma d'altronde la carta dello psichiatra è già stata giocata da inizio spettacolo. Ed infine la maturità che nell'ottica di almeno quarant'anni fa veniva rappresentata con il raggiungimento dei 18 anni, volano di emancipazione e libertà ma come si fa a crederlo possibile oggi considerata la profonda crisi economica in cui ci troviamo che costringe le nuove generazioni nelle mure di casa dei genitori fino ad un tempo non ben definito?
Insomma è evidente che le dinamiche nel rapporto tra padre e figlio non potranno avere uno sviluppo simile a quello che il testo ci prospetta.
L'unico piacere che se ne riesce a trarre è un sorriso amaro per una società che non esiste più e che stride nel rapportare i suoi valori con quelli odierni.
S.D.
14/11/2016