#recensione dello spettacolo “Cavalleria Rusticana” in scena al teatro Ghione il 21 novembre 2016
17 Maggio 1890 è la data di un esordio, quasi una scommessa si potrebbe pensare. Quel 17 Maggio al Teatro Costanzi di Roma, va in scena la prima opera di Pietro Mascagni, prima di una serie di altri 16 capolavori che incideranno per sempre il nome dell’artista nell’olimpo dei compositori. Ma facciamo un passo indietro: è il 1888 e l'editore milanese Edoardo Sonzogno annuncia un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non hanno ancora fatto rappresentare una loro opera. Atto unico e via, si sarebbero aperte le porte dei teatri di Roma a spese di Sonzogno spesso. Dalla Capitale ad un piccolo paesino in provincia di Foggia, dove il maestro della banda musicale locale viene a conoscenza del concorso.
Quel giovane talentuoso maestro è, ovviamente, Mascagni, che due mesi prima della chiusura delle iscrizioni chiede al suo amico Giovanni Targioni-Tozzetti, poeta e professore di letteratura all'Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. La scelta ricade su Cavalleria rusticana, una delle novelle più popolari di Giovanni Verga come base per l'opera e in fretta e furia viene completato il tutto l'ultimo giorno valido per l'iscrizione al concorso. Il resto è storia che arriva fino a noi.
Cavalleria rusticana, che Verga scrisse e Mascagni decantò, è d’altronde un’opera che è Storia a sé: basta nominarla e subito l’ Oh Lola, c’hai di latti la cammisa vien da canticchiare. Quell’aria sì famosa che preannuncia, a mò di corposo antipasto, l’intermezzo sinfonico vanto e tratto distintivo dell’intera composizione. Note che semplici e dirette, come una canzone popolare, vibrano delicate e, sferzate dalla bacchetta armoniosa, poetica e a tratti energica, del maestro Piergiorio Dionisi riempiono di colpo la sala del teatro Ghione, gioiello scenico di una serata incantevole.
Semplice, dicevo. Sì, perché in fondo Cavalleria rusticana è una storia semplice, un racconto che si tramanda, un fatto che vola di bocca in bocca dopo che “come freccia dall’arco scocca”: tornato da fare il soldato”, Turiddu non riesce a dimenticare Lola, alla quale aveva giurato eterno amore, ma ormai sposata con il carrettiere Alfio; deluso, il giovane si rifugia tra le braccia di Santuzza, compromettendo il suo onore e suscitando in lei il desiderio di vendetta al momento della scoperta della tresca con Lola.
La tragica fine è subito annunciata: Alfio uccide Turiddu, dopo aver scoperto la verità attraverso le parole di Santuzza. Verga docet in tutta questa Sicilia in salsa verista.
Poi? E poi c’è l’abilità magistrale del regista, Alessandro Pace che riesce a ricreare perfettamente le atmosfere isolane di allora, il clima passionale del testo letterario e l’escalation di sentimenti cantati e recitati dell’opera. Come? Con la semplicità degli uomini a sua disposizione. La semplicità e il talento ovviamente. La scenografia, infatti, è secondaria, pochi elementi lasciano intuire gli spazi e il tempo. L’importanza è l’elemento umano. La struggente e disperata Santuzza (il soprano Rosanna Cardia) tiene tutti sotto scacco, tiene tutto il pubblico in apprensione e lo invita ad immischiarsi, ad incuriosirsi alla sua amorosa tragedia, ai suoi vacillamenti di donna ferita e disonorata e al suo crocefige per la sciagura finale. Lola (Serena Muscariello), la fatale Lola, passeggia con aria vezzosa tra le aree vezzose e fresche del paese, tra i due uomini che tiene in mano e che fa affrontare e scontrare, anche solo con uno sguardo, con un cenno distratto dello sguardo. Infine loro, i protagonisti maschili, gli alfa della tragedia passionale, i duellanti e al contempo i designati dal destino vergano a darsi battaglia fin dal primo affronto. Tra acuti e solfeggi, duetti e allegri andanti ecco, anche a distanza, scaturir la lotta, maturare il confronto ed esaurir la tragedia tra Turiddu (Roberto Cresca) e Compare Alfio (Alessio Quaresima Escobar): una tragedia annunciata, assaporata fino in fondo ma, come da copione, solamente gridata e compiutasi dietro le quinte; d’altronde in scena, in quella Pasqua di passione, va il dolore, quel dolore risorto dalle ceneri dagli amori sepolti dalla gelosia dell’uomo.
Infine il coro e l’orchestra (Nuova Arcadia di Roma): mai semplice cornice ma fedeli compagni di viaggio per quest’unico atto. Prendono lievemente le mani del pubblico e lo guidano tra il giubilo della festa dell’evento religioso e nell’intramontabile intermezzo. Insomma coinvolgenti e puntuali oltre che fedeli al testo originario: il risultato è quello di un allestimento convincente, in cui lo spettatore è totalmente rapito e commosso dalla leggerezza della vita campestre, la solennità della preghiera e l'intensità drammatica dei duetti.
Che nessuno fermi quegli applausi…
Federico Cirillo
23 novembre 2016