Recensione della prima giornata di Roma Live Arts, rassegna internazionale di spettacoli di prosa, musica, teatrodanza e arti varie dedicata alla memoria di Peter Brook.
Il 21 novembre ha preso il via il “ Roma Live Arts”, la rassegna internazionale di spettacoli di prosa, musica, teatrodanza e arti varie dedicata alla memoria di Peter Brook. L’ apertura è stata affidata al Maestro Eugenio Barba che nella magica atmosfera dello “Spazio Rossellini”, dopo di lui lo spettacolo “Ave Maria” diretto da Eugenio Barba e ancora a seguire le esibizioni performative di Abraxa Teatro. Tra un evento e l’altro il pubblico è potuto intervenire, proporre, manifestare la propria idea di teatro.
Eugenio Barba, un uomo di oramai 86 anni, con la freschezza e la curiosità di un giovane alle prime armi, ha raccontato la sua storia di teatro con la semplicità di chi continua a giocare con lo stupore che gli regala quest’arte meravigliosa. Eugenio parte dalla Puglia, dopo che è rimasto orfano di padre, per andare in Norvegia, dove lavorerà come saldatore e marinaio. Il contatto con un paese straniero, negli anni cinquanta, lo racconta come drammatico, perché l’altro allora, era davvero un “diverso”, sul quale si percuotevano episodi di razzismo quotidiano. La distanza era soprattutto quella linguistica e la sofferenza della perdita della lingua madre portarono Barba ad affinare il senso cinestetico, poiché alla mancanza di lingua doveva sopperire necessariamente l’affinarsi degli altri sensi. Questa “empatia sensoriale”, non a caso, diverrà un motivo dominante del lavoro pedagogico e teorico del Maestro; eppure questa “scoperta semplice” nasce dal dolore della lontananza. Stesso dolore che lo porterà a scegliere di fare teatro, cosa a cui lui fino ad allora non aveva mai pensato; il teatro gli permetteva di muoversi e mettere una maschera attraverso la quale poteva nascondere il suo essere straniero.
All’ inizio la scelta del teatro era quindi assolutamente politica e rimase tale anche quando si trasferì in Polonia con l’intento di continuare i suoi studi presso la Scuola teatrale di stato di Varsavia, che lasciò dopo appena un anno per unirsi alla compagnia di Jerzy Grotowski, all'epoca capo dello sperimentale Teatr 13 Rzedow di Opole. Allora Jerzy Grotowski non era conosciuto se non a pochissimi, il suo teatro semivuoto faticava nel portare avanti i suoi lavori, eppure persisteva grazie al regime che sovvenzionava gli attori e le attività del teatro stesso. Barba rimase a Opole per te anni, il tempo , come lui racconta di “osservare” minuziosamente ogni piccolo dettaglio degli spettacoli di Grotowski, di cui era aiuto regista. Un’osservazione “silenziosa” anch’essa dove il linguaggio svaniva ancora una volta per dare corpo ai gesti, ai suoni, alle immagini. Dopo il suo viaggio in India, dove ebbe il suo primo incontro con il teatro Kathakali, tornò a Oslo, intenzionato a creare un suo teatro, ma le difficoltà che incontrò furono notevoli, nonostante queste, persistette portando avanti le sue “menzogne vitali” (cita Ibsen); ossia quegli intendimenti, spesso menzogneri che ci permettono di perdurare nei nostri intenti. Così pensò: “cosa mi serve per fare il mio teatro? I soldi? No! Uno spazio? No! Mi servono uomini e donne, persone"; ma visto che non poteva disporre di attori, più o meno professionisti, poiché non aveva denari, raccolse un gruppo di giovani che non avevano superato la prova di ammissione alla Scuola teatrale di stato di Oslo e con essi fondò l’“Odin teatret”. La struttura del laboratorio teatrale era molto semplice; una volta radunati tutti questi “attori”, chiese ad ognuno cosa sapeva fare e in base ai loro talenti gli assegnò un compito. In questo modo ognuno era sia allievo che insegnante. La compagnia mise in scena “Ornitofilene” in Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia riscontrando un notevole successo e dopo il affermazione di critica riscontrato in Danimarca, il gruppo fu invitato dal comune di Holstebro, una piccola città della costa nord-occidentale, a creare un laboratorio teatrale in loco. All'Odin Teatret furono offerti una fattoria e un'esigua somma di denaro per potersi stabilire nel posto autonomamente. Da allora, Barba e i suoi colleghi hanno ad Holstebro la sede della propria compagnia. Anche di questa esperienza Barba racconta con una travolgente semplicità. “Una volta arrivati in questa fattoria decisi di dipingere tutte le pareti di nero, una sorta di black box. Avevo letto gli studi del neurologo Lurija e degli esperimenti che aveva fatto mettendo in ambienti asettici di stimoli alcune persone e di come in quel caso si implementava il pensiero, la fantasia e le immagini interne”.
A questo punto, in appena due ore, una pagina di storia del teatro si è srotolata dinanzi a noi che lo ascoltavamo. Barba chiude il suo incontro lasciandoci forse con un insegnamento, di come negli anni ha capito che il suo intento di fare teatro non era politico come pensava all’ inizio, bensì quello di “dare a me stesso una forma di dignità”. Ecco perché lui considera L’Odin, il “teatro degli esclusi”, il teatro che si conquista un angolo e poi conquista altri angoli.
Infine Eugenio Barba ci lascia con un regalo. Gli chiediamo cos'è per lui la platea?
Ci risponde che per lui non esiste un unico pubblico, ha sempre pensato alla molteplicità delle persone che lo compone alle svariate esigenze, alle diverse lingue e bisogni. Ecco perché ha lavorato con i linguaggi sinestetici, perché nessuno resti escluso.
Barbara Chiappa
22 novembre 2022