Domenica, 24 Novembre 2024
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Il teatro e gli spettatori: quell'accordo implicito costantemente rinnovato

Lo spettacolo è appena terminato, c'è un momento di indecisione tra il rimanere seduti ancora per qualche istante oppure avviarsi verso l'auto, cercando di ricordare, con una certa disinvoltura e indifferenza, dove l'abbiamo posteggiata. Forse la scelta tra il rimanere e l'andare potrebbe già informare sull'impatto che ha avuto su di noi la rappresentazione teatrale stessa. Essa infatti necessita di essere rimasticata ed elaborata prima di divenire giudizio e spesso, quando c'è stato nutrimento, tale processo di assimilazione inizia implicitamente, subito dopo la chiusura del sipario. Indugiare sulla poltrona a volte è espressione e metafora  di una certa densità di contenuti necessitanti di esser focalizzati, prima di poterci permettere un immediato slancio verso casa. Poter dire, o dirci, di essere rimasti soddisfatti o delusi da quel lavoro teatrale è  frutto di un processo elaborativo interiore che abbraccia le nostre aspettative, bisogni e paure, verificando al contempo se determinate promesse siano state mantenute.

Tra lo spettatore e lo spettacolo esiste infatti un implicito accordo con regole ben precise. La presenza e l'attenzione richiesta agli astanti nel seguire l'idea portante dell’esibizione, cogliendone le sfumature non sempre immediatamente intellegibili, viene ricambiata con un contenuto che lo spettatore può far proprio, da cui nascono riflessioni che avviano un processo di crescita personale. La sfida e il “dovere” del teatro, oltrepassando la specificità del genere espressivo, consiste  nel processo di “restituzione” al pubblico, a cui dovrebbe essere evitata la sensazione di non aver preso abbastanza. A lavori teatrali dichiaratamente impegnati, dove l’abbondanza di materie di riflessione è fisiologicamente presente, si contrappuntano le commedie che, lungi dall’essere un genere squisitamente ricreativo, rispondono anch’esse alla richiesta di andare oltre la matrice comica, non esaurendo il potenziale all’interno di una risata. La leggerezza dell’ umorismo dovrebbe, infatti, rappresentare solo lo strumento principale per traghettare il “visitatore” nell’esplorazione del doppio fondo drammaturgico, nascosto tra le pieghe della risata e dell’immediatamente visibile.

Si è parlato spesso, a tal proposito, del processo di identificazione come una tra le principali prerogative implicite del teatro: un guardarsi allo specchio e condividere una determinata esperienza di cui spesso pensavamo essere uniche vittime solitarie. Siffatto processo di simpatia, che si sostanzia nel sorprendersi all’interno di una condizione comune, rappresenterà il primo e vero fattore terapeutico e di autoassoluzione: mentre ridiamo degli altri ridiamo e piangiamo per noi stessi. Anche ai lavori apparentemente più leggeri è richiesto quindi un rimando, una risonanza nascosta dietro una risata o una trama spensierata, che permetta al pubblico di pensarsi. Tuttavia, alle assonanze tra spettatore ed attore, dove questi  mette in scena i drammi della comune esistenza, si affianca per il primo anche la possibilità di sentire  “come se” ciò che si sta inscenando stia capitando a lui. Siamo nel campo dell’empatia, un modo evoluto di poter vibrare insieme, senza aver necessariamente esperito l’emotività della situazione che vediamo rappresentata. Mentre nella dinamica che caratterizza la simpatia, la condivisione dell’esperienza si esplica in un tacito “tu sei uguale a me”, nel processo empatico il “come se..” diviene il perno dominante. Sarebbe impossibile, infatti, per ciascuno di noi aver vissuto la grande varietà di situazioni emotivamente significative rappresentate a teatro e nei cinema... eppure ci siamo commossi, arrabbiati, emozionati: il “come se” è stato predominante. Se è pur  vero che la bontà di uno spettacolo, parimenti ad un’opera d’arte, viene decretata dallo sguardo e dalla sensibilità  di chi la contempla, è altrettanto vero che l’opera stessa deve possedere un contenuto da cogliere.  Basti pensare al sapore agrodolce della vera commedia italiana, mai imperniata solo sul versante comico ma in grado di far convivere l’umorismo con il tragico, raccontando di fatto storie e storiacce del genere umano.

Ammettendo quindi che il teatro ha un impegno, esplicabile nell’indurre una riflessione da portar con sè, il pubblico a sua volta ha l’occasione di lasciarsi compenetrare  da ciò a cui ha appena assistito. Lasciare il teatro troppo presto rischia di divenire una mancata occasione di crescita e di fallito contatto con le proprie emozioni, preferendo rimandare tale incontro ad un indefinito e rassicurante “dopo”. Dare un senso all’esistenza riflette l’ universale bisogno umano di rendere essa prevedibile e manipolabile: anche tra il pubblico teatrale si rintraccia la stessa necessità di chiudere il proprio cerchio decifrando quanto si è appena assistito. Talvolta non siamo abituati a contattare le nostre risonanze, o semplicemente abbiamo paura di dischiudere qualcosa che preferiamo rimanga implicita: per tale motivo, il cerchio talvolta viene superficialmente chiuso cogliendo, di quanto appena assistito, una frugale traccia che di fatto rischia di non intercettare la densità dell’intera vicenda teatrale. Oppure delusione per il mancato colpo di scena, un modo diverso di non sporcarsi le mani con le proprie emozioni, ricercando solo l’effetto speciale. Per tale ragioni il poter con consapevolezza affermare: “Mi è piaciuto...non mi è piaciuto” è un gesto culturale, coraggioso ed introspettivo di chi ha saputo trattenersi  a teatro.

 

Simone Marcari

18 novembre 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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