#recensione
Recensione del concerto di Louis Lortie all'Aula Magna della Sapienza il 5 novembre 2016
Torna Louis Lortie a La Sapienza e lo fa con un programma incentrato sulla forma musicale per antonomasia più sfuggevole e indefinita, la sonata.
Un oggetto sonoro che nel corso di tre secoli da artista ad artista ha sempre cambiato forma, una vera e propria dimostrazione dell'evoluzione di genere mai giunta in definitiva a totale compimento.
Lortie, pianista fraco-canadese apprezzato e rinomato, per il suo stile puro e interpretativo, sui 3/4 del globo terracqueo ci propone un programma che, muovendosi all'interno del periodo classico, prende in esame tre sonate che nel dettaglio risultano delle partiture se non uniche davvero particolari nel loro genere.
In principio è la Sonata mi minore op. 7 di Edvard Grieg. Scritta a 22 anni è l'unica partitura dedicata dal compositore norvegese al pianoforte solo. Era il 1865, Grieg aveva appena concluso i suoi studi in terra germanica al conservatorio di Lipsia ed è palese, senza stare a perdersi in giri di parole, l'influenza di compositori come Mendelssohn e Schumann. Innegabile però è anche il grande amore (che poi perpetuerà per tutta la vita) per le melodie popolari della sua terra.
E' seguita poi la Sonata in la maggiore op. 101 dell'immancabile Ludwig van Beethoven (immancabile perché se si va a dare un'occhiata al curriculum di L.L. si scoprirà che è un vero esperto dell'esecuzione dell'integrale delle sonate per pianoforte dell'immortale compositore tedesco). Ora al di là che è l'esecuzione che ci è piaciuta meno, vanno comunque dedicate alcune righe a una sonata che sancisce l'inizio del terzo ed ultimo periodo dell'attività compositiva di Beethoven e che testimonia l'avvenire di un vero e proprio cambiamento strutturale all'interno della dinamica compositiva del Maestro teutone. Infatti il primo movimento, in questo caso un Allegretto ma non troppo, perde la sua leadership di fulcro della sonata e va a contrapporsi a un secondo tema col quale crea un antagonismo drammatico, ma non troppo.
Conclude la serata la Sonata in fa minore op. 5 di Johannes Brahm. Composta all'età di 20 anni, terza di tre, è caratterizzata da una possente architettura musicale e fin dai primi accordi colpisce come sia preponderante l'influenza di compositori tedeschi come Beethoven, Brahms e Schumann dei quali si ritrovano continui riferimenti sparsi qua e là tra le righe del pentagramma dei cinque movimenti che la compongono.
A voler esser proprio puntigliosi gli elogi di The Times, Die Welt e via dicendo sono solo in parte rispondenti alla realtà. Infatti se sul versante tecnico Louis Lortie è maturo, spontaneo ed immaginifico, su quello emotivo, non sempre riesce a colpire nel segno. E' vero anche che spesso e volentieri sembra essere tutt'uno con lo strumento, in alcuni momenti il battere il ritmo col piede diviene addirittura così emotivamente furioso e trascinante da divenire parte dell'esecuzione stessa, ma delle tre sonate solo l'esecuzione di alcuni movimenti è riuscita a catturarci emotivamente: di Grieg il Alla menuetto, ma poco più lento (terzo movimento), di Beethoven l'Allegretto, ma non troppo (primo movimento), di Brahms l'Allegro maestoso (primo movimento) caratterizzato da un forte intimismo e l'Andante: Andante espressivo (secondo movimento) che ci ha data la piacevo impressione di un paesaggio dove sta cadendo lenta la neve.
Ad ogni modo finito il concerto ancora una volta applausi a non finire e immancabile il bis: lo Studio op. 25 No. 1 di Frédéric Chopin che ha avvolto il pubblico dell'Aula Magna come il veloce scorrere dell'acqua da una fonte pura e cristallina (Se si va a dare una seconda occhiata al curriculum di L.L. si scoprirà che è noto in tutto il mondo per l'esecuzione degli studi del pianista polacco. Oltre a questo l'incisione degli stessi è stata nominata una delle "50 registrazioni di pianisti superlativi").
Fabio Montemurro
08/11/2016