Nel nuovo appuntamento della nostra rubrica #checlassico, proveremo ad incuriosire i nostri lettori su una pietra miliare della letteratura del Novecento: Il fu Mattia Pascal. Quali motivi potrebbero spingere a leggere o a rileggere nel 2020 un romanzo del 1904? In primis la straordinaria originalità dell’opera che la rese, come nel caso de “La coscienza di Zeno”, non immediatamente compresa dai contemporanei. Forse, molti non sanno che essa ricevette una stroncatura dall’autorevole voce di Benedetto Croce e Renato Serra, mentre fu simultaneamente tradotta in Francia e Germania dove ricette invece una notevole attenzione. Questo punto di partenza potrebbe già di per sé costituire uno stimolo di riflessione sull’orizzonte culturale in cui vede la luce l’opera, che si esprime nel rapporto tra critica e opere non convenzionali da cui scaturisce una relativa chiusura alle innovazioni, per certi aspetti ancora attualmente ravvisabile in alcuni ambienti.
Nella lettura de Il fu Mattia Pascal, sono chiaramente ravvisabili caratteristiche che contrastano con l’allora consolidato impianto naturalistico della letteratura dell’Ottocento, i cui dettami erano la descrizione oggettiva e il più aderente possibile alla realtà, con personaggi dotati di una figura psichica ben definita, che agiscono in un orizzonte di certezze morali, sociali e culturali. Con il personaggio di Mattia Pascal, quest’unità psichica è frantumata sotto i colpi di un occhio sociale che obbliga il personaggio ad una continua recita di ruoli e lo incastra in molteplici identità che non ha scelto. Pirandello osserva l’uomo contemporaneo nei suoi comportamenti schizofrenici in cui interpreta parti imposte dal di fuori che cozzano con la sua vera natura interiore, inafferrabile, indefinibile, in conflitto con le maschere sociali. La lotta tra la “forma” e “la vita”, nel caso di Mattia Pascal sembra senza soluzione. Questi infatti, grazie ad una serie di fortuite combinazioni, sarà creduto morto. È convinto che questa sia la sua vera fortuna, visto che potrà spogliarsi degli abiti opprimenti di uomo, marito e genero frustrato, in un luogo di provincia che non lo gratifica. Assumendo la nuova identità di Adriano Meis, inizialmente prova un senso di liberazione esaltante, ma presto dovrà fare i conti con i limiti della sua nuova condizione, dove, senza carta d’identità, di fatto non esiste per la società.
Decide così di abbandonare anche le vesti di Adriano Meis, nell’illusione di riacquistare la libertà rientrando nella sua vita precedente, ma il flusso della vita è inarrestabile e al suo ritorno, nulla è più come prima: la moglie si è risposata e ha avuto un altro figlio e lui concluderà la sua vita andando ogni tanto al cimitero a portare i fiori davanti alla sua tomba. La conclusione umoristica cela la delusione e la sconfitta di chi si arrende all’impossibilità di sfuggire alla Maschera. Non sorprende, quindi, che i contemporanei di Pirandello non abbiano compreso fino in fondo la dirompente carica rivoluzionaria di un romanzo che indaga sulla crisi della classe sociale borghese e dell’uomo del Novecento che non si riconosce più nei vecchi stereotipi della società dell’Ottocento. È rappresentato un individuo che non sa più chi è, che vede l’identità personale come la trappola delle apparenze sociali che imbrigliano l’essenza, l’energia vitale, lo spirito multiforme dell’essere umano. Nell’ottica pirandelliana la via d’uscita o è impossibile o acquista toni drammatici o poco convenzionali. Nonostante la complessità e il pensiero tragico di Pirandello, la lettura di quest’opera potrebbe rivelarsi adatta anche agli adolescenti, da sempre interessati da conflitti e turbamenti interiore e coinvolti nella difficile impresa di esprimere la propria autenticità.
Filomena Zarrelli
7 maggio 2020