#intervista
Conosco Francesco Leineri da un paio di anni ormai, e ogni volta che si presenta un suo spettacolo vado a teatro con la curiosità di vedere quale forma curiosa ha trovato il maestro per farci entrare in contatto con la sua musica. L’ultima esibizione è andata in scena dal 16 al 18 dicembre al Teatro Studio Uno di Torpignattara, teatro molto caro a Leineri che ne è assiduo frequentatore. In una chiacchierata informale parliamo un po’ di lui e di SOLO, suo ultimo spettacolo.
Ho già avuto modo di intervistarti per tuoi precedenti lavori, ma ricordiamo ai nostri lettori da dove viene Francesco Leineri. Riassumi un po’ il tuo background artistico e, magari, le esperienze di vita significative che ti hanno avvicinato alla musica.
Vengo dalla pancia di mia madre: cresciuto in Veneto, maturato in Sicilia e vissuto nel Lazio. Il mio background artistico – parlo come se fossi morto - è costituito dalle persone che ho odiato e amato, dalle case che ho vissuto e dalla mia quotidianità. Dopo una decina d’anni di formazione musicale accademica ammetto forse scontatamente che è proprio la vita - della quale spesso ci dimentichiamo quando lavoriamo, dunque mentre suoniamo o scriviamo – ciò che c’è di più coerente nel mio passato artistico. E nel mio caso specifico, questa vita - già consunta e noiosa se mi guardo allo specchio, un sottinteso per eccellenza, quella costellazione che ci fa da sfondo, una parola non detta - è l’unica cifra stilistica che riconosco, che poi è frutto delle mie scelte e dunque non me ne vergogno affatto. Sulla sostanza in sé si può discutere, certo, ma tant’è e ci sto: preferisco addentare anche il lato più agorafobico della libertà più che ingabbiarmi forzatamente e per paura nelle scelte sbagliate, prese solo per rassicurare me stesso. Negli ultimi lavori ho provato a far affiorare proprio ciò di cui mi dimentico ed è stata questa la grande sfida: il mio background è fatto di tutte queste riflessioni.
Da quali maestri ricevi influenze o quali panorami artistici arricchiscono il tuo modo di fare arte?
Potrei sciorinarti alcuni maestri coi quali ho studiato o continuo a studiare, dal pianoforte alla composizione o alla direzione d’orchestra. Potrei anche dirti che adoro Keith Jarrett e che per il momento ho sul pianoforte dei preludi di Debussy; che mi commuovo a teatro guardando Slava Polunin e che tre volte su quattro mi addormento al cinema a meno che non ci sia tipo Il Signore degli Anelli; o che divento pazzo ascoltando Traviata o che mi piacciono i tagli di Fontana checché se ne dica. Lo so che sembro un idiota ma paradossalmente mi piacciono le cose belle ed essenziali, e mi faccio influenzare da tutte quante, ecco: anche questa è una risposta scontata, ma se ci pensi bene nella nostra sfortunatissima quotidianità artistica non lo è affatto. Dice il mio amico Cecco che sono una femminuccia perché compro i fiori e leggo le poesie d’amore, ma a conti fatti è tutto un atteggiamento ambasciatore di positività, null’altro. Perché l’ispirazione deve necessariamente essere positiva, per quanto la realtà possa apparirci crudele.
“Solo” è il tuo ultimo lavoro. Uno spettacolo che pare manifestare una condizione più intima e personale. Ci si domanda il perché di un titolo.
Il titolo c’è perché lo dovevo mettere. Come il disco dei Sìgur Ros - ( ) … ecco, più o meno quello è il concetto.
Da dove nasce l’intuizione che da vita poi allo spettacolo?
Dalla voglia di dare tutto a chi ascolta, più di ogni altra volta. E dal desiderio di fare un’altra partita a scacchi contro me stesso.
Come si articola lo spettacolo? Parlaci dei punti essenziali che lo compongono.
Volevo cercare di essere il più sereno possibile col mio carattere e descrivere al meglio la vittoria (o sconfitta) personale che la sincerità vive dinanzi al vuoto. Come mi è capitato di dire in altre occasioni, l’atto concertistico – attivo o passivo che sia - non è nient’altro che una grande comunione di solitudini; un vuoto riempito più o meno con sufficienza, e in questo sta la vera caratura di un qualsiasi musicista di qualsiasi tipo, secondo me. Stavolta ho voluto vivere l’atto performativo pensando soltanto al suono in sé e per sé, a quell’hic et nunc: sì, dunque all’improvvisazione e blabla, ma anche alla consapevolezza che fra me e gli ascoltatori non ci fossero più barrier e da scavalcare ma soltanto binari paralleli da percorrere insieme. I primi anni in conservatorio un maestro per aiutarmi a comprendere certe partiture di Bach mi diceva: “Immagina tre treni che compiono percorsi diversi partendo e arrivando dalla stessa stazione”. Ecco. Questi siamo noi che facciamo musica: chi la fa, chi la ascolta e chi non pensa affatto a nulla, che a volte è più utile di quanto si possa pensare.
Sempre allo Studio Uno ti sei esibito ad aprile portando in scena Sonòriter | Armònikem | Melòdikes | Rìtmiken | Formàtikon, il concertinspettacolo che ha riscosso grande successo. Le linee che incrociano o separano nettamente i due spettacoli?
Entrambi parlano di vuoto e scrutano un abisso che ancora non ho avuto le palle di affrontare. Se va avanti così fra un annetto succederà il panico. Poi, per carità, dal punto di vista tecnico sono lavori diametralmente opposti: uno è spettacolo e l’altro è concerto. Non è detto però, come già ci siamo svelati più di una volta io e te, che i confini fra l’una e l’altra forma nelle mie produzioni siano così marcati.
Potremmo definire la tua musica sperimentale. Quanto può rispecchiarti questa parola?
Di questi tempi “sperimentale” sembra essere analogo a “contemporaneo” e aborro l’una e l’altra parola quando viene coscientemente svelata, quindi non spetta a me dire chi o che cosa rappresenti, semmai ciò che sono. Come recitava il neon di Maurizio Nannucci, “All art has been contemporary”: c’è dunque da dire anche che questi termini pretendono di dire tutto e il contrario di tutto allo stesso tempo - un po’ come “sperimentale” o come “dissonanza” o “consonanza” – ma questa è un’altra storia.
Un musicista contemporaneo che apprezzi anche se distante dal tuo modo di concepire la musica?
Aridaje col contemporaneo! Ok, va bene, Krzystof Penderecki. Lo adoro ma non sarei capace di scrivere neanche una frazione di secondo di quel tipo di musica. Ovviamente la colpa è mia e non sua!
Ti avremo presto in scena con nuovi lavori?
Forse sì, forse no. Ho deciso di essere pigro ma questo è soltanto un punto a vantaggio dei lettori e del pubblico in genere. Scherzi a parte, strada facendo troverete tutto sui social e sul mio sito web!
Erika Cofone
27 dicembre 2016