#intervista
Nasce, cresce deserti è frutto letterario di questo nuovo anno. La creatura della scrittrice emergente Sofia Bolognini viene pubblicata dalla casa editrice L’Erudita ed è pronta a raccontarsi. Qui una conversazione con l’autrice.
Il tuo percorso è sicuramente costellato dalla passione per il teatro e dall’impegno civile. Mi riferisco agli spettacoli che hai messo in scena: Cantieri Incivili, Romeo e Giulio e La Cattività. Come sei passata dalla drammaturgia alla forma romanzo e qual è stata la spinta per farlo?
In realtà il passaggio è stato inverso, dalla forma romanzo alla drammaturgia. Da bambina passavo interi pomeriggi con la macchina da scrivere di mia madre. Volevo raccontare, volevo leggere e leggevo qualunque cosa. Avevo il feticcio della carta stampata. Mi piaceva confezionare manoscritti con i miei racconti e regalarli ai compagni di classe, lettori accanitissimi e naturalmente crudeli. Un gioco che ho continuato a fare anche al liceo: allora una delle mie vittime aveva uno zio che lavorava in una casa editrice. Così un giorno ho ricevuto una telefonata e poi il mio primo contratto editoriale. Avevo sedici anni. Mi sembrava una cosa enorme. Il teatro con bologninicosta è venuto dopo. Quando ho scoperto la scrittura drammaturgica mi è venuto un colpo, non sapevo da dove iniziare e così ho iniziato daccapo: studiando le opere dei grandi maestri. L'impegno civile e la rabbia sociale sono il mio primo motore creativo. Sono figlia di operai, mi hanno forgiata nella lotta. Ogni gesto artistico è un atto politico, consapevole o inconsapevole. Io ho fatto della mia consapevolezza un'etica, una vocazione, una necessità.
Nasce, Cresce Deserti fin dal suo titolo ha una struttura non convenzionale, fatta di immagini o frasi apparentemente non concordanti e di certo visionarie: urgenza espressiva o scelta stilistica?
Entrambe. Prima di comporre un testo, letterario o teatrale che sia, ho bisogno di sapere che cosa voglio dire e come voglio dirlo. Ho bisogno di trovare una voce, uno stile o meglio: una strategia. Abito con il mio compagno, Dario Costa, che è un compositore eccezionale. Ho imparato molto da lui. Come un compositore sceglie con cura i suoni e gli strumenti con cui andrà a lavorare, allo stesso modo un autore costruisce una lingua che possa armonizzare con le proprie urgenze espressive e creare una musica.
Che differenza c’è tra lo scrivere per mettere in scena e farlo pensando a una pubblicazione?
Quando scrivo per mettere in scena, elaboro a monte una struttura, definisco i personaggi, la trama, gli intrecci. È un lavoro quotidiano, in cui c'è continuamente bisogno di tornare indietro e correggere, tornare indietro e tagliare, tornare indietro e ri-scrivere. Mentre sono all'opera devo vedere la scena, devo capire che cosa stanno facendo gli attori, devo organizzare lo spazio e sentire il respiro del pubblico, i muscoli che si tendono. Quando scrivo un romanzo o una poesia invece, non penso a niente. Non so mai dove sto andando e non mi interessa. Scrivo e non conosco la trama, la scopro facendo. Lavoro a intermittenza, ma quando affronto la pagina bianca lo faccio con lo stesso stupore di quando ero bambina, e non correggo mai niente di quello che scrivo. Lo metto una volta nero su bianco, e da quel momento è per sempre. È naturale, ecco. Nel mio caso, è questa la differenza: la scrittura letteraria è istinto. Quella drammaturgica, artigianato. Sono due fatiche profondamente diverse, ma richiedono entrambe una dose spropositata di fede e di amore.
La prima opera si dice solitamente sia autobiografica: tu la dichiari essere un romanzo di formazione non-scritto? Quanto c’è di te in questo testo e perché questa contraddizione del “non-scritto”?
Dire che ci sia qualcosa di “scritto” in questa raccolta è molto difficile. Non assomiglia ad un romanzo, perché di fatto non succede praticamente niente. Soprattutto mentre lavoravo su La Ragazza col Girasole, mi ricordo che avevo un bisogno irrefrenabile e testardo di impedire la narrazione. Appena succedeva una piccola svolta di trama, immediatamente sentivo il bisogno di sommergerla, di negarla, di farla scomparire. Scrivevo per impedirmi di scrivere. Il risultato è un testo capovolto, un gioco di specchi in cui il non-scritto dice tutto quello che lo scritto nega. C'è il riconoscimento, c'è la presa di consapevolezza che passa anche attraverso la morte e questo può forse bastare per definirlo un romanzo di formazione. Forse anzi è quello che avrei voluto scrivere quando l'ho scritto. Ma non lo è affatto. Dentro questi racconti ci sono io, naturalmente. C'è tutto. La mia partenza da Ancona e il mio arrivo nella Capitale. È una raccolta di fotogrammi, di immagini che ho collezionato durante gli ultimi anni della mia vita. Non ho inventato niente. Su ogni insignificante dettaglio scritto potrei raccontare un aneddoto. È una sorta di diario senza “caro diario”, un'odissea per frammenti, una ricostruzione poetica.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e quanto la pubblicazione di questo testo li influenzerà?
Nei prossimi mesi porterò avanti insieme al mio compagno il progetto Cantieri Incivili con la coproduzione del Cinema Palazzo e lavoreremo sulla mia ultima fatica drammaturgica: RANCORERABBIA, un testo per il quale mi sono letteralmente svenata, sventrata, sbudellata. Allo stesso modo porteremo avanti il lavoro su FIGLIE D'EGITTO ovvero LE SUPPLICI con il sostegno del Cendic di Roma. Non prevedo particolarti influenze sul destino del mio Nasce, Cresce Deserti: preferisco per il momento tenere separati questi due aspetti della mia vita. Il mio piccolo, prezioso, fragilissimo romanzo non-scritto farà il suo percorso e io lo terrò d'occhio da lontano, come fa una brava mamma. Non prevedo di scrivere un nuovo romanzo al momento: come quando finisce una storia d'amore, c'è bisogno di tempo per metabolizzare, comprendere, perdonare e quindi tornare alla pagina bianca per amarsi da capo, di nuovo freschi, puri, innocenti.
Cristian Pandolfino
6 febbraio 2017