Venerdì, 18 Ottobre 2024
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Intervista a Sandro Bonvissuto che ci parla dello spettacolo tratto dal suo racconto

“Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta”, in scena al teatro India di Roma dal 15 al 27 ottobre.

 

L’inaugurazione della stagione teatrale del teatro India è affidata quest’anno ad un reading; “Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta”, racconto di Sandro Bonvissuto, il terzo del libro “Dentro”, edito da Einaudi nel 2012. Abbiamo avuto la fortuna di intervistare Sando Bonvissuto prima di vedere lo spettacolo; ecco perché abbiamo deciso di riportarvi in parallelo sia le parole di Bonvissuto, che le nostre impressioni sullo spettacolo in scena all’India dal 15 al 27 ottobre.

Ringraziamo anticipatamente Bonvissuto per la sua generosità; quasi un’ora di chiacchiere profonde, consigli letterari, riflessioni di vita. 

 

L’inaugurazione del teatro India di Roma con un tuo testo è un bel traguardo. Come nasce questo progetto?

Grazie a Stefano Cioffi, regista dello spettacolo e mio amico. Era un po’di tempo che mi diceva che dovevamo fare qualcosa insieme, così è nata l’idea di mettere in scena questo racconto, che è assolutamente fedele al testo che ho scritto, ma quando l’ho ascoltato la prima volta ero talmente commosso e incredulo da chiedermi: “ma chi l’ha scritto?”. Aprea aveva gli spazi per realizzarlo e così è nato. 

Il rapporto con  Valerio Aprea come è stato?

Io Valerio non lo conoscevo proprio,  l’ho visto una volta, eppure è stato straordinario. Ha fatto suo il testo completamente, realizzando in pieno il senso del mestiere dell’ attore. Ha dato completamente forma alle mie parole.  Ha “svergognato” l’intimità profonda del testo e l’ha condivisa, riuscendo nel prodigio di rendere pubblico il privato. Sono molto soddisfatto di quello che è uscito fuori.  Anche se il valore dello spettacolo che mi porto dietro oggi è l’amicizia che si è creata. 

 

Il tema del padre è un tema dominante dei tuoi lavori, quasi un’ossessione,  perché?

Mio padre era un pesciarolo, di poche parole, eppure ti posso dire che è stata la persona più grande che ho conosciuto in vita mia. Oggi l’esercizio della paternità è completamente cambiato, te lo dico da padre di due figli; le intenzioni sono completamente diverse. Oggi il padre è amico, o almeno ci prova, una volta i nostri padri erano di poche parole, impacciati, eppure fondamentali.  Non sono ossessionato da ruolo del padre, semplicemente ne ho grande ammirazione, perché è un ruolo in disuso, è come esplorare un mondo sconosciuto. La donna si veste dei suoi sentimenti, l’uomo invece ha paura di amare, fa fatica, e questa inabilità a toccare i sentimenti la trovo di una delicatezza estrema. L’ amore del padre, in un certo qual modo mi leva le forze per quanto è potente. La vera ossessione per me è la famiglia, intesa come collettività familiare. Trovo nella famiglia una costruzione di senso civico; l’ educazione che si trasmette come grossa formazione individuale, in realtà è una visione socialista della collettività. 

 

Come concepisci il tuo lavoro di scrittore?

La mia è una scrittura distillata, un lavoro molto travagliato, pensato. Ti capita che l’idea ti passa davanti la mente, la vedi per una volta e la devi acchiappare, subito. Questa forse è l’azione più difficile, la forma è abbastanza  naturale, la cosa difficile è il tentativo di appropriarmi di una forma. Considera che per me l’italiano è una seconda lingua, io sono un ignorante colto, un coatto che ha studiato. Pratico un’azione quotidiana di lettura, non è solo una disciplina nei confronti di me stesso, ma una giornata di lettura per me è  una giornata perfetta. Ho letto e leggo tantissimo, si può dire che la cosa che faccio meglio è leggere e quando parlo di libri non mi sbaglio mai.

 

La Murgia parlando di un tuo libro disse che si palesa nella tua scrittura una sofferenza tutta tua, una solitudine che è quasi un “profondo abisso”. Sei d’accordo con questa sua visione?

La solitudine è profondamente inevitabile, la sera quando vai a letto sei solo con te stesso. Questo la Murgia lo sapeva bene. In questo ho una visione esistenzialista, credo che la condizione di solitudine sia fondamentale, l’individuo non  può sfuggire alla consapevolezza che non sarà mai in grado di condividere pienamente la propria coscienza con gli altri.

 

 

L'intervista a Sandro Bonvissuto avviene qualche giorno prima della messa in scena della prima dello spettacolo, lo spirito con cui chi vi scrive è giunta in teatro era ovviamente spinto dal desiderio di ritrovare nell'interpretazione di Aprea seppure in parte qualche sentore degli intenti dell'autore. Ebbene, la prima sensazione che ho avuto è che non ci fosse solo un sentore, ma che Aprea avesse vestito intimamente un testo e non solo recitandolo, ma sentendolo, vivendolo. Il racconto è una sorta di cavalcata verso un fatto che è appunto l'insegnamento del padre al figlio dell'andare in bicicletta, ma per raggiungerlo l'autore è passato per una strada che si è ramificata in tanti piccoli viottoli percorsi con minuzia di dettagli; mostrandoci che la magia della scrittura, quando è così performante è davvero una magia. Nessun particolare è sotteso, la descrizione dei luoghi, degli oggetti, degli stati emotivi è talmente precisa nei dettagli da riuscire a vederne ogni piccolo sfaccettatura. Un’unione di specchi all’ interno di un caleidoscopio che ruotando formano una figura iridescente. La scena vuota dove Aprea si posa unicamente con un leggio si popola di personaggi, strade, oggetti e perfino di polvere. Perché la polvere in questo testo viene descritta come mai chi vi scrive ha visto fare. Ecco, è proprio questa forse la traccia che attraversa il testo, la descrizione dettagliata degli aspetti "fenomenologici" delle cose, è tutto un "qui e ora" e tutto il "qui e ora "è curato nelle parola senza lasciare fuori nessuno minimo particolare di ciò che il fatto racconta. E  questo lo coglie, cucendo addosso al testo "il suo mestiere di attore" (come giustamente diceva Bonvissuto), divenendo l'enunciazione della parola stessa il fatto. E così la punteggiatura assume un valore consistente, l'ironia di alcuni momenti diventa un divertimento per tutto il pubblico e per  definire emozioni non serve mimica, basta unicamente la parola, scritta e formulata. Il racconto culmina in un apice di bella commozione, chiara, sincera, dove l'aver trovato l'equilibrio sulla bicicletta permette al bambino di dichiarare l'amore profondo nei confronti del padre, che fino allora non sapeva neanche chi fosse, ma che nel gesto educativo si dichiara finalmente nella sua presenza potente. Veramente una bella prova d’attore per Aprea, uno spettacolo che consigliamo vivamente in un momento in cui i reading hanno assunto un ruolo nella scena teatrale rilevante e non sempre sono trattati con questo pregio.

 

 

Barbara Chiappa

16 ottobre 2024

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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