Periodo di sospensione per il teatro, tra incertezze del presente e speranze per il futuro. È di questo che abbiamo parlato con Gianluigi Fogacci, attore e regista, che propone il suo punto di vista sulle decisioni prese dalle istituzioni verso il settore spettacolo e analizza le possibilità, anche nuove, che possono offrirsi per mantenere viva una delle attività che oggi sta soffrendo maggiormente.
Come commenta, leggendo i recenti provvedimenti emergenziali, l’attenzione rivolta dalle istituzioni verso gli operatori dello spettacolo e in particolare del settore teatrale?
Nessuno discute i provvedimenti. Anche se sarebbe lecito chiedersi perché ci si adoperi a trovare misure per aprire i ristoranti, mentre la riapertura dei teatri viene considerata un problema da non trattare nemmeno? Ma questa scarsa attenzione non nasce con l’epidemia, viene da lontano. Il peccato è originale: considerare il teatro un settore non essenziale e la cultura un orpello. Benno Besson diceva: ”Il teatro è il giocattolo della società”. Come per il bambino, il giocattolo non è un semplice mezzo di svago, ma è lo strumento della crescita e rispecchia il suo stesso modo di crescere.
Di chi sono, secondo lei, la responsabilità?
Il teatro ha bisogno di sovvenzioni. Non si può pensare che si sostenti solo con gli incassi. Sarebbe quindi necessaria una classe dirigente, che purtroppo è mancante. Quella attuale è costituita da manager, individuati dalla politica, intercambiabili, ovvero privi di una cultura specifica. In un contesto, per di più, carente culturalmente anche in senso lato: è assai raro vedere fra il pubblico rappresentanti delle istituzioni. Se allora il parametro di valutazione è solo quello economico, il teatro, che è un ambito poco remunerativo, viene avvertito come un peso. Eppure, il settore ha una ricaduta occupazionale di circa 300.000 lavoratori.
C’è una disaffezione anche del pubblico?
No. Nelle platee avverto ancora passione e richiesta di teatro.
L’attuale situazione offre anche nuovi spunti alla creatività?
Una classe dirigente competente ha a disposizione soluzioni che potrebbero tradursi anche in investimento. Sono cose che si sono già fatte. Invece di proporre, come fa Rai 5 statiche riprese di spettacoli teatrali, andrebbero pensati degli spettacoli costruiti appositamente per il mezzo televisivo. Delle produzioni che potrebbero peraltro essere vendute, come si fa per altre forme di intrattenimento. Ma questo si faceva già negli Anni ’70, quando la prosa in TV era un appuntamento fisso del venerdì sera. Teatro si è fatto anche per radio e molte opere cinematografiche non sono altro che trasposizioni.
Invece non vedo con favore il teatro in streaming. Ci sono problemi tecnici e il mezzo di per sé non favorisce l’attenzione necessaria per i tempi di cui il teatro ha bisogno.
Quali potrebbero essere delle valide soluzioni per questo periodo transitorio?
Il teatro ha grandi capacità di adattamento. Ma anche qui tutto è già stato fatto. A fine Anni ’60 Peter Brook propose un Edipo di Seneca, in cui azzerava i movimenti di scena e gli attori recitavano staticamente, allineati e distanziati. Pensare a rappresentazioni meno agite, dove la parola prevalga sull’azione è senz’altro possibile. Lo stesso teatro di poesia riscuote sempre molto successo. Ma c’è bisogno di una linea conduttrice. Gli spettacoli vanno pensati, provati (e ad oggi, assurdamente, neanche questo è possibile), prodotti, prima della vera e propria messa in scena. Quello che oggi manca è appunto una prospettiva.
Valter Chiappa
8 maggio 2020