Ugo Dighero sarà in scena con Mistero Buffo al Brancaccino dal 10 al 13 ottobre 2019
“Mistero Buffo è come una Ferrari: difficilissima da domare inizialmente, ma poi quando sai guidarla è uno spettacolo. Io porto a teatro l’opera di Fo mettendoci il mio stile, anche perché a fare il paragone con lui si esce per forza perdenti”
Ugo Dighero presenta così il suo “Mistero Buffo”, portando a teatro, al Brancaccino, il capolavoro di Dario Fo e si sofferma anche sul suo passato, sul futuro e sul momento culturale italiano.
Dighero, non è la prima volta che ti cimenti con “Mistero buffo”, cosa cambia ogni volta riportarlo in scena, riesci sempre a dare un tocco personale?
Porto in scena Mistero Buffo da più di 30 anni, è una cosa che ho studiato da ragazzo, dal momento in cui ho iniziato con la scuola, praticamente. Era il periodo in cui Dario Fo era rientrato da poco in tv con quest’opera, dopo la lunga assenza e io fui affascinato dal suo stile e dal suo modo di recitare, era un vero affabulatore. In pratica all’interno di una narrazione, con tempi e ritmi fantastici di fare più parti, riusciva a raccontare personaggi, atmosfere, scenografie e anche i profumi solo attraverso una tecnica espressiva impressionante.
Dietro quindi c’è stato uno studio enorme che va dalla commedia dell’arte all’improvvisazione. I protagonisti parlano e dialogano tra di loro in modo naturale all’interno di geometrie, spazi, tempi, sguardi e espressioni mimiche ben delineati e definiti, un po’ come nel cinema quando avviene lo scavalcamento di campo. All’inizio il mio fu uno studio vero e proprio che mi appassionava e dopo un po’ ho iniziato a portarlo in scena.
Ecco, cosa vuol dire andare in scena con un testo di Fo?
Andare in scena con Mistero Buffo è un po’ come portare una Ferrari: bisogna imparare ad usarla e non è per niente semplice, ma una volta che uno ha imparato si ritrova con il culo su una Ferrari. Mistero Buffo è la Ferrari in cui sono entrato, ha dei testi fantastici.
Cosa ti affascina del teatro di Fo e del modo che aveva di recitare?
Il fatto che questo spettacolo puoi portarlo in scena in qualsiasi condizione e in qualsiasi luogo perché è un tipo di teatro che si può fare dalla stanza allo stadio, non ha bisogno di nulla di più dell’attore. A un certo punto avevo provato ad aggiungere un fondale, dei giochi di luce, ma in realtà mi sono accorto che il bello, oltre all’enorme successo che continua ad avere ogni volta che lo faccio, è che puoi davvero farlo semplicemente con te stesso e basta. La gente è talmente abituata a essere guidata nell’immaginazione preconfezionata, mentre qui l’istrione riesce a far scattare il meccanismo profondo dell’immaginazione. Quest’opera è come quando leggi un libro e puoi crearti un percorso personale immaginario ed è ciò che mi piace di più: accendere negli spettatori quello stimolo senza aver bisogno di nulla. Il testo è un vero miracolo della recitazione e dell’espressione artistica.
Insomma è un’opera che passa anche attraverso il suo direttore d’orchestra?
Esattamente. Mi sono molto basato sulla scrittura, in questo caso straordinaria, appoggiandomi molto a quello che faceva Fo in scena, ovviamente rimanendo un po’ distante perché mettersi in competizione con lui è davvero difficile, parti perdente in ogni caso. Questa quindi è la versione di Ugo Dighero del Mistero Buffo. Sono partito da un punto di vista di Fo ma essendo il testo talmente forte e ricco di spunti, sono riuscito ad abbandonarmici con estrema fiducia.
Il confronto con Fo è qualcosa che mette un po’ d’ansia e agitazione immagino…cosa vuol dire portarlo in scena?
Eh, effettivamente le prime volte l’ho portato in scena con grandissimo timore ed enorme reverenza. Poi a un certo punto a Genova, al teatro Modena, durante una festa con presenti Fo e Franca Rame, ho recitato “Il primo miracolo di Gesù Bambino” davanti a loro e quella è stata davvero un’esperienza forte. Dario era molto contento, se la rideva e mi ha anche dato qualche dritta. Devo dire che è stata una soddisfazione enorme.
Nello spettacolo ci sono i due pezzi de “Il primo miracolo di Gesù bambino” e de “La parpàja topola”, molto diversi tra loro.
Sì sono due pezzi diversi ma con delle tematiche attualissime. Il primo parla di un piccolo Gesù in fuga dall’Egitto con i genitori. Arrivato in terra straniera vuole giocare con altri bambini che invece lo scacciano poiché diverso, straniero. Così lui si vede costretto a fare un piccolo miracolo per farsi accettare. Insomma stiamo parlando di un tema che vediamo e sentiamo ogni giorno per quanto riguarda l’integrazione, il diverso e l’immigrazione. Il secondo testo “La parpàja topola”, tratta da Fabulatio Oscena, parla di una sorta di Forrest Gump ante litteram. Il protagonista è un giovane capraio sempliciotto e ignorante, ai limiti della stupidità quasi, che si ritrova con un’eredità enorme da gestire. Quindi da che era sconosciuto e evitato, inizia ad attirare l’attenzione di molti che in qualche modo provano ad approfittare della situazione. Si ritrova in una serie di avventure dove il sempliciotto ingenuo, senza retro pensieri, un Candido quasi si confronta con un vero e proprio pugno di realtà. Sono due storie con delle tematiche attuali che regalano spunti di riflessione su atteggiamenti e comportamenti della nostra società e dell’essere umano.
Tu porti in scena Fo da moltissimi anni. Ho notato però che spesso esiste una sorta di timore da parte di alcuni circuiti e teatri a portare in scena i protagonisti e gli autori più attuali, magari del secondo ‘900, rifugiandosi spesso, invece, nella proposta dei classici già conosciuti e “sicuri”: è un problema di pubblico, di comunicazione o semplice refrattarietà a proporre qualcosa di diverso?
Credo sia un problema italiano legato a molti fattori. Uno dei quali è la frequentazione dei teatri da parte dei giovani: sono pochi e sempre di meno, quindi magari è più facile presentare qualcosa su cui si va sul sicuro per un determinato tipo di pubblico. Nell’ultima tournèe che ho fatto, per dire ho fatto molta fatica a trovare un trentenne in sala. Poi c’è da dire che negli ultimi anni la cultura in Italia è sempre meno considerata ed esportata: in Europa a livello culturale abbiamo perso moltissimo campo quando dovremmo essere la Disneyland della cultura per storia e tradizioni. Dovremmo essere davvero un giacimento inesauribile di cultura, mica abbiamo la bauxite da esportare noi. In Inghilterra, ad esempio, i ragazzi usano il teatro in continuazione per parlare e comunicare il loro mondo e la loro realtà ed è per questo che vediamo una fioritura di scrittori e autori molto fertile, anche molto giovani. Loro usano la cultura per parlare di loro, cosa che qui essenzialmente manca. Noi purtroppo siamo il paese in cui non esiste più un progetto teatrale che si focalizzi sul testo e sulla qualità dell’opera, ma ci si concentra innanzitutto sul nome. Ammetto di essere da questo punto di vista anche fortunato avendo fatto televisione, ma all’inizio quando giravamo in teatro eravamo dei completi sconosciuti eppure portavamo in scena roba di qualità, testi di Calvino con cui vincemmo il “Biglietto d’Oro”. Erano sicuramente momenti in cui vi era ancora spazio e modo di proporre qualcosa. Oggi ci vuole l’operazione commerciale legata al nome accattivante e questo rende il mestiere dell’autore e dell’attore di teatro molto molto complicato.
Progetti attuali e futuri, dove ti vedremo?
A livello televisivo ho girato quest’estate una fiction insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico (autori di “Boris” ndr) che hanno scritto un’opera con il tema del Cohousing, una sorta di nuova versione della comune quasi. Un progetto molto interessante affrontato con il loro ironico stile che uscirà su Rai Due prossimamente. Appena finisco poi queste date al Brancaccino sarò sempre qui a Roma al Golden con Gaia de Laurentiis in una commedia francese che si chiama “Alle 5 da me”, di Pierre Chesnot, molto divertente. Saremo lì fino ai primi di novembre. Gennaio e febbraio invece riprendo uno spettacolo fatto quest’anno con il Teatro Nazionale di Genova insieme a Neri Marcorè, “Tango del calcio di rigore” che ha come argomento i mondiali in argentina del 1978 dove si giocava a 300 metri di distanza dalla camera di tortura dove non si sapeva che fine facevi. Usiamo il calcio per affrontare questa storia difficile, un argomento delicato insomma. Quindi mi vedrete molto a teatro fino a fine anno e incrociamo le dita anche per la fiction in cantiere.
Federico Cirillo
10 ottobre 2019